Calcio

Altobelli: «I miei 70 anni, l’Inter, il gol Mondiale e la mia Brescia»

Venerdì 28 novembre Spillo spegnerà le candeline: «Arrivai in città nell’anno della Strage, non mi sono più mosso»
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I 70 anni di Spillo Altobelli
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«Cosa vorrei come regalo per il traguardo dei settanta? Una cosa impossibile, trent’anni di meno... A parte gli scherzi, mi basta la serenità che ho ora». Alessandro Altobelli è per tutti Spillo, soprannome datogli a Latina dal maestro elementare che ogni giorno aspettava il piccolo Sandro fuori dallo stadio per accompagnarlo verso lo spogliatoio. Venerdì 28 taglierà il traguardo dei 70 anni, molti dei quali trascorsi a Brescia. Che è la sua città d’adozione, che è passato, presente e futuro. Lui che con l’Inter ha segnato 209 gol, lui che rientra nel club (meno di cento) di coloro che hanno segnato nella finale di un Mondiale. E che oggi si racconta così.

Altobelli e gli azzurri dopo la finale di Madrid
Altobelli e gli azzurri dopo la finale di Madrid

Qual è il suo bilancio alla soglia dei 70 anni?

«Bello, perché dalla vita ho avuto tutto, ma so anche di essermelo meritato. Non avevo nella testa questo traguardo, ma a forza di incontrare gente che me lo ricorda ci faccio caso. Il pensiero allora va a mia mamma Giovanna, che di anni ne ha 90, lucidissima e arzilla (e gli occhi si illuminano, ndr). Ecco, vorrei essere come lei».

Da ragazzino immaginava di diventare «Spillo», quello che in tutto il mondo conoscono?

«Sognavo di fare il calciatore e i miei genitori non mi hanno mai ostacolato, nemmeno quando partii per Brescia a 19 anni».

Arrivò in un momento particolare...

«Era il 1974, misi piede in una città che aveva appena vissuto la Strage di piazza della Loggia. I miei erano preoccupati, io non vedevo l’ora di mettermi in mostra su un campo di calcio. Brescia mi ha accolto, mi ha abbracciato, mi ha fatto sentire subito uno del posto. E poi qui ho conosciuto Stefania, mia moglie, sono nati i miei figli. Ormai mi sento bresciano a tutti gli effetti».

Mai avuto la tentazione di trasferirsi?

«No, nemmeno ai tempi dell’Inter in cui avevo la casa ad Appiano Gentile e in centro a Milano. Io la domenica finita la partita prendevo l’auto e tornavo a casa. E per me casa era ed è Brescia».

Tre stagioni, dal ’74 al ’77: c’è una persona a cui deve dire grazie?

«Tante, ma una in particolare: Francesco Saleri. Mi è stato vicino fin dal primo giorno, quando mi sono sposato è stato lui a comprarmi casa a Brescia. Sei milioni, io ne prendevo cinque. "Me li darai Spillo". E così è stato, ma il gesto non lo dimenticherò mai. Fu lui ad accompagnarmi in sede all’Inter quando firmai il contratto».

Lei è stato anche assessore allo sport all’ombra del Cidneo.

«Un onore grandissimo. Non sapevo di politica, ma potevo portare la mia cultura sportiva in Loggia. Ero in Tunisia, Ettore Isacchini mi chiamò per dirmi che ero stato messo in lista. Gli dissi "ma non so nulla Ettore", mi rispose: "Non ti preoccupare, impari". Poi l’elezione e la nuova telefonata: "Diventi assessore allo sport". La solita mia frase, la solita risposta: "Non ti preoccupare, impari". Mi sono messo a disposizione, delle cose di cui vado fiero c’è l’aver recuperato 5 miliardi destinati al Rigamonti che rientravano nei contributi per tutti gli stadi in occasione di Italia ’90».

  • Spillo Altobelli in visita alla redazione del Giornale di Brescia
    Spillo Altobelli in visita alla redazione del Giornale di Brescia - Foto New Reporter Papetti © www.giornaledibrescia.it
  • Spillo Altobelli in visita alla redazione del Giornale di Brescia
    Spillo Altobelli in visita alla redazione del Giornale di Brescia - Foto New Reporter Papetti © www.giornaledibrescia.it
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    Spillo Altobelli in visita alla redazione del Giornale di Brescia - Foto New Reporter Papetti © www.giornaledibrescia.it

A fine anni Novanta pensò anche di prendere il Brescia.

«Ero molto legato a Viganò, vice presidente dell’Inter. Metteva tanti soldi, una volta gli dissi "perché non fai un’esperienza da solo?". "E dove?". "A Brescia" gli risposi. Parlammo con Corioni, non trovammo l’accordo, si virò su Padova. Dopo qualche mese me ne andai, lasciando i soldi sul tavolo. Venivamo visti come stranieri non troppo graditi».

Prima però, con la maglia del Brescia, la carriera la finì nella stagione ’89-’90.

«Non avrei potuto fare altrimenti. In realtà accadde però qualcosa di strano. Mi chiamò Bersellini, che per me era come un padre. Allenava l’Ascoli in serie A, mi convinse ad andare. Feci delle amichevoli, ma a qualche giorno dall’inizio del campionato nessun contratto. Arrivò il mio amico Costante, con la Ferrari, a trovarmi. Io la mattina mi presentai da lui con la valigia. "Andiamo" gli dissi. Ma il bagaglio non ci stava nella Ferrari. Presi i vestiti, li buttai in auto, e via. Dopo qualche ora sentii Sogliano: l’accordo per giocare nel Brescia arrivò in due minuti».

Segno di quel legame che ancora oggi esiste.

«Se sono soddisfatto come uomo e come calciatore lo devo anche a Brescia. È anche grazie a lei se non ho rimpianti, se sono stato bravo o fortunato, vedete voi, a trovarmi nella condizione di vivere sereno e di poter lasciare qualcosa ai miei figli. Ecco, visti così i 70 anni sono quasi belli».

Ok, Brescia ma c’è anche Sonnino.

«Le origini, il posto in cui mi sono rifugiato da calciatore nei momenti no. Gli amici di sempre, la famiglia. A fine novembre ci sarà una grande festa: nell’82 quando tornai dopo il Mondiale, c’era più gente a festeggiare me che alla processione».

Ecco, il Mundial vinto.

«Ci rendemmo conto veramente di quanto fatto solo nel tragitto dall’aeroporto di Ciampino al Quirinale. Gente ovunque. Ho i brividi ancora oggi».

Il bacio alla Coppa del Mondo
Il bacio alla Coppa del Mondo

Il suo gol in finale è tuttora iconico.

«Ne ho segnati centinaia, ma ovunque mi chiedono solo di quello. Sembra facile a rivederlo, ma non è così: oltre alla tecnica misi la testa, caratteristica fondamentale se si vuole essere calciatori».

Un Mondiale particolare per lei.

«Segnavo tanto all’Inter, ma c’erano delle gerarchie. Davanti a me avevo Rossi e Graziani, fortissimi. Cosa dovevo fare, puntare i piedi? Sapevo solo che per me anche un solo minuto doveva valerne 90, per mettermi in mostra. E poi le scelte le faceva Bearzot, che per tutti noi era più di un allenatore. Lo abbiamo sempre definito un padre e non esageriamo».

Lei chiuse il Mondiale azzurro segnando nell’82 e lo aprì quattro anni dopo con il gol alla Bulgaria. Cosa non andò nell’86?

«Bearzot aveva un debito di riconoscenza verso coloro che avevano trionfato in Spagna, forse avrebbe dovuto dare spazio a qualche giovane in rampa di lancio».

Veniamo all’Inter.

«Quando firmai avevo gli occhi lucidi, tutta la mia famiglia è interista».

Una carriera soprattutto nerazzurra, quella di Spillo Altobelli
Una carriera soprattutto nerazzurra, quella di Spillo Altobelli

Dal ’77 all’88 in nerazzurro.

«Ho giocato con squadre più o meno forti, sono stato attaccante e poi capitano, il gruppo si fidava di me».

Giocare a San Siro vuol dire...

«Vivere un’emozione unica, ogni volta che ci metti piede. Ti sa portare in paradiso, ma anche all’inferno. E se iniziano a fischiarti, devi cambiare aria. Chi dice che non è uno stadio per tutti ha ragione».

Avrebbe potuto vincere di più a Milano?

«Forse sì, ma ho sempre dato il massimo per farlo. A volte il gruppo non era magari all’altezza. Mi ricordo ogni firma del contratto. Io sapevo che da quel momento lo dovevo mettere alle spalle, nella testa pensavo solo a lavorare per meritare i soldi».

L’addio nel 1988.

«Non andavo d’accordo con Trapattoni e Pellegrini. Io non me ne sarei mai andato, ma oggi posso dire che gli juventini erano loro, non io! Dava fastidio che fossi molto rappresentativo nello spogliatoio: presi il contratto da un miliardo e 400 milioni e glielo strappai in faccia».

Lei dice che gli juventini erano loro, ma scelse proprio la Vecchia Signora...

«Allora, successe questo. Ero sul lago, casa senza telefono. Un giorno qualcuno chiamò la vicina che mi disse: "Sandro ti cercano, un certo signor Boniperti". Risposi, era davvero lui. Mi convocò a Torino per il giorno dopo, capii subito perché vincevano tanto. Mi disse: "So quanto prendi a Milano, ti diamo 300 milioni in più"»

Non andò benissimo...

«Mi feci male, e poi ero nato interista... A San Siro non vedevo l’ora che la partita finisse. Ma Agnelli mi telefonava spesso, soprattutto la notte, per sapere anche cosa stessero facendo i più giovani».

Dispiaciuto per non aver avuto una carriera da dirigente all’Inter?

«Beh sì, ma quando accettai il passaggio alla Juventus misi in conto che non avrei più potuto ricoprire incarichi in nerazzurro».

Un’ultima curiosità: come mai quelle esultanze sempre moderate, anche nel citato gol della finale Mondiale?

«Perché puoi non buttare fuori la gioia, ma averla immensa dentro. Mi dicevo: perché fare scenate di fronte a un avversario che sta perdendo, o magari retrocede? Perché innervosire gli spettatori dell’altra squadra? Un giocatore deve avere tecnica, ma anche testa». 

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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