Essere profeti in patria è possibile, anche a Brescia

In epoca moderna il concetto del «nemo propheta in patria» è ormai superato da tempo; in ogni campo ci si muove dove maturano le migliori possibilità professionali, inevitabile per chi parte dalla provincia, così nel calcio.
I nostri più grandi allenatori proprio fuori dai nostri confini hanno ottenuto i maggiori riconoscimenti, vedi Gigi Maifredi – partito addirittura dai dilettanti e poi arrivato alla Juventus – o l’emergente Roberto De Zerbi, la cui esperienza nello Shakhtar Donetsk è stata interrotta solo dalla guerra.
Ma il Brescia può vantar anche fior di allenatori – l’ultimo è Corini – che nella squadra della propria città hanno fatto benissimo. Non va mai ricordato abbastanza che l’artefice dei due campionati consecutivi in A del Brescia negli anni sessanta fu Renato Gei che dopo la promozione dalla B del 1965, salvò le rondinelle nelle due stagioni successive, svezzando fra l’altro molti talenti di casa.
Fra questi, Ottavio Bianchi, poi diventato a sua volta il primo allenatore a far vincere uno scudetto al Napoli nel 1987. Uomo di grandi valori sin dalla gioventù, a un giornalista che sottolineava quanti sacrifici comporti la vita del calciatore, una volta replicò. «Quelli li fa mia papà, tipografo al Giornale di Brescia, perché lavora anche di notte». Non si è ancora spenta l’eco della salvezza conquistata in condizioni estreme da Gigi Cagni, ex ragazzo di via San Faustino, chiamato nel marzo del 2017 al capezzale di una squadra in piena zona retrocessione a otto turni dalla fine.
Vista l’emergenza, non esitò a prendere scelte impopolari, come quella di togliere un attaccante quando vedeva soffrire la squadra. E non si vergognava di chiudere la partita anche con 7 difensori – come avvenne contro il Benevento – per portare a casa i tre punti. Atteggiamenti che fecero storcere il naso ai puristi della tribuna, dettati però dalla situazione e che alla fine servirono a centrare l’obiettivo della salvezza.
In realtà Cagni, quando aveva allenato in A, si era dimostrato un tecnico all’avanguardia, capace di scelte originali. Come quando, alla guida del suo Piacenza, battè 5-4 il Foggia di Zeman utilizzando le stesse armi del rivale e cioè facendo giocare a zona una squadra che si era sempre schierata a uomo.
Su Corini, ormai sappiamo tutto: di come abbia portato il Brescia in A con una fantastica cavalcata, di come nella stagione successiva il suo lavoro sia stato interrotto forse troppo presto e sia stato ripreso troppo tardi e dell’impatto strabordante che abbia avuto in questo campionato, dopo essere subentrato a Inzaghi. Ma è il legame col pubblico la sua vera ricchezza: la gente si fida di lui, sostiene la squadra nei momenti di difficoltà, accompagna con fiducia ogni giocata.
Un’arma in più da giocare in questo finale di campionato che, a partire da oggi, vedrà il Brescia altre due volte in casa e- nel caso in cui si dovesse accontentare dei play off – con la concreta prospettiva (in caso di terzo posto) di disputare a Mompiano anche le sfide decisive. Un motivo in più, in un campionato così equilibrato, per non arrendersi sino alla conclusione. Perché al fattore campo si può aggiungere il fattore Corini, il nuovo profeta in patria capace di riscaldare la gente in poche partite più di quanto fosse riuscito Inzaghi (comunque a sua volta molto ben voluto dalla tifoseria) per mesi interi.
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