Brescia, nasce il Corini Ter: non basta la resistenza di Inzaghi

La prima volta fu un trionfo senza pari. La seconda tutta da dimenticare. E la terza...to be continued: è tutta da scrivere e soprattutto da vivere in 7 puntate. Come una di quelle serie cult che quando finiscono, ti ritrovi a sognare prima o poi una réunion tra i protagonisti tanto per ricordarsi di come eravamo e come potremmo tornare a essere. L’impensabile è accaduto: Eugenio Corini è rientrato davvero. È accaduto ieri - dopo due giorni e mezzo in cui ancora una volta il Brescia ha messo sul piatto fin sul limite la sua credibilità sull’esterno e ha giocato d’azzardo duro - alle 13.50, quando dagli organi preposti è arrivato il via libera all’operazione. Contratto fino al 2023 e premio in caso di A: a Corini è stato affidato il compito di fare di tutto per perseguirla, provando a ridare slancio a un sogno che lentamente è diventato preda di una involuzione.
I fatti
Non era nei programmi di inizio stagione (ma neanche nel 2019), però poi il campo ha detto altro: difficile rassegnarsi come rassegnato era l’ultimo Brescia dell’ultimo Inzaghi. Pippo ha provato a «resistere» tramite la clausola con la quale si salvò dal primo esonero a febbraio, ma stavolta il Brescia è andato fino in fondo forzando il forzabile a livello legale per bypassare la strettoia burocratica e licenziarlo: sembrava una favola ed è invece finita a carte bollate e diffide. Gli organi competenti, dopo una mattinata di suspence e dopo che nella notte di martedì Corini aveva firmato al termine di una serrata trattativa, hanno però avallato le procedure del Brescia che ora con Inzaghi se la vedrà in altre sedi. «Non resto a dispetto dei santi, senza sentire la fiducia» disse l’allenatore dopo il primo esonero con lo stesso concetto ripetuto post Pordenone. È stato sfiduciato una seconda volta, ma non si è arreso: non sapremo mai a questo punto se per orgoglio e sfida personale, o se perché davvero pensava che una situazione di rapporti ormai scoppiati potesse sul serio tornare a essere produttiva. Sta di fatto che è finita in modo spiacevole e questo lascia a prescindere un alone di tristezza: come ogni esonero.
I risvolti
In particolare uno come questo, diverso dagli altri perché qui non si tratta di salvare una squadra sul precipizio, ma di ridarle smalto per alzare l’asticella. Doveva andare diversamente con Pippo che naturalmente non ha tutte le responsabilità («La ragione e il torto non si dividono mai con un taglio così netto, che ogni parte abbia soltanto dell’una o dell’altra») perché la stagione era iniziata male nell’impostazione arrivando a creare un «mostro» nel rapporto che decisamente a lungo è stato troppo diretto tra lui e Cellino. Nemmeno l’arrivo in corso di Marroccu ha sanato il «peccato originale» e si è andati avanti tra pezze e rattoppi: alla fine tutti si sono incartati. La vicenda di febbraio in particolare ha scavato un fosso. Cellino ci ha messo moltissimo del suo come spesso gli accade con gli allenatori, ma anche a Inzaghi - al quale vanno riconosciute passione e attaccamento lodevoli - è mancato qualcosa: compreso il coraggio di alzare l’asticella a fronte delle indicazioni di un campionato che dice che pur nei suoi innegabili difetti strutturali, il Brescia ha qualità per puntare in alto. Si è rifugiato in una comfort zone - sempre più sulla difensiva, respingendo ogni critica anche minima relativa agli appunti su tante partite giocate come alla roulette - che ha portato alla lunga il Brescia ad abbassare la fiamma.

Il finale
E così, pure il vero tratto riconoscibile della sua squadra, un carattere leonino che lo rispecchiava e nella quale i suoi si riconoscevano, ha iniziato a venire meno. Le indicazioni uscite dalla partita col Pordenone (ma anche col Benevento) sono state da esonero e a prescindere dalle attenuanti si è arrivati al punto in cui è stato necessario chiedersi quale fosse la cosa migliore per il bene supremo: il Brescia. Il solo carro - non quello di Cellino, di un allenatore, o di giocatori, o di dirigenti - sul quale tutti ci si deve ritrovare. E se esonero doveva essere, allora è stata fatta la scelta migliore possibile. A Inzaghi va un grazie, ma ora tocca a Corini, idolo di una piazza che in parte censura i modi dell’addio a Inzaghi ma che è felice della rentréé. Conoscendolo come uomo di saldi principi, non sarebbe qui se non avesse scavato nel profondo ravvisando estremi costruttivi e la possibilità di lasciare davvero da parte i veleni che Cellino gli riservò. Poi, quale rapporto si svilupperà tra i due lo vedremo. La «restaurazione» del 2019 è servita. Ora, fino alla fine.
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