Enrico Casella, quell’ingegnere che mi cambiò la vita

Molti anni dopo, di fronte all’impeccabile doppio salto di Angela Andreoli che sanciva la medaglia d’argento dell’Italginnastica, mi sono ricordato di quel remoto pomeriggio in cui avevo conosciuto Enrico Casella.
Mi permetto di parafrasare l’incipit di «Cent’anni di solitudine» e di vestire i panni del colonnello Aureliano Buendia (fortunatamente non davanti a un plotone di esecuzione) perché martedì sera, nell’arena di Bercy, mentre guardavo dalla tribuna l’ingegnere nucleare che aveva appena realizzato un sogno, ho pensato al nostro primo incontro, più di trent’anni prima, nella palestra di via Roma a Brescia, dove era andato a prendere la figlia di un caro amico.
Venni investito da un tornado: la bambina, o più probabilmente suo padre, gli aveva detto che scrivevo sul GdB e questo era bastato perché mi aggredisse (verbalmente, per fortuna: il nostro ha un passato da rugbista di serie A e non gli mancavano né i muscoli né la faccia di chi non ci pensa due volte a metterli in azione): perché il giornale ignorava la Brixia che pure stava ottenendo i primi risultati di livello?
Riportai le sue lagnanze al caposervizio dello sport che hic et nunc mi incaricò di seguire la ginnastica. Fu un colpo di fortuna, professionale e umano. Ho potuto seguire e scrivere della crescita prepotente di un sodalizio che pochi anni dopo vinse il suo primo scudetto e dal 1996 porta almeno una ginnasta alle Olimpiadi e nel frattempo sono diventato amico fraterno (la giusta distanza, questa sconosciuta…) del suo allenatore. Che emozione, l’altra sera a Bercy.
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