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Auto elettrica: investimenti per 60 miliardi, ma tagli ai posti

L’Europa supera la Cina nei piani strategici pubblici e privati, ma ridurre i costi implica licenziamenti
Rischio occupazione: è un problema da affrontare
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Auto elettrica. La svolta è iniziata nel 2019 e non ha subito particolari rallentamenti neppure nel corso della pandemia del 2020. Nel periodo, infatti, l’industria e i governi dell’Unione hanno stanziato 60 miliardi di euro per la produzione di veicoli elettrici e batterie. Il report è stato pubblicato da Transport & Environment, una realtà che da anni è impegnata sul fronte della politica «green» per la mobilità pubblica e privata. Il «boom» dell’investimento europeo sull’elettrico è di quasi venti volte superiore a quando - nel biennio 2016/2017- le case automobilistiche avevano una strategia marcatamente rivolta allo scenario cinese, dove si concentravano gli investimenti maggiori. Un traguardo raggiunto anche in scia alla spinta regolatoria degli obiettivi Ue sulle emissioni di Co2.

Sin qui il quadro sembrerebbe roseo, ma siamo costretti ad usare il condizionale poiché, a fronte di tanto impegno finanziario, ci sono due fattori da conteggiare che portano ad un risultato univoco: il comparto dell’auto perderà posti di lavoro. Tali fattori dipendono sia dal taglio dei costi preannunciato da costruttori e sia dalla semplificazione produttiva delle automobili elettriche che, ovviamente, favoriscono l’automazione ancora più esasperata delle linee produttive. Il cuore delle vetture, ovvero la parte complicata, è principalmente nelle batterie, il cui destino è legato alla ricerca e alla conseguenze standardizzazione produttiva. In questa delicata fase, secondo una serie di indiscrezioni a volte confermate dagli stessi dirigenti dei grandi marchi dell’automotive, i posti di lavoro a rischio in Europa non saranno meno di 50mila. Recuperabili solo nella prospettiva di un rilancio della mobilità privata fortemente sostenuto da incentivi pubblici.

È evidente, a questo punto, che ogni strategia di sviluppo deve tenere conto dell’impatto sociale conseguente al periodo di transizione in atto. Tema peraltro all’ordine del giorno anche in Italia sul cosiddetto ricambio generazionale. Il 26 gennaio scorso, intanto, la Commissione europea ha dato il via libera al secondo importante progetto di interesse comune europeo (Ipcei) sulle batterie, a cui partecipano oltre all’Italia anche Austria, Belgio, Croazia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Polonia, Slovacchia, Spagna e Svezia. L’Italia, come informa il Mise, partecipa a questo progetto, con 12 imprese (Endurance, Enel X, Engitec, Fca Italy, Fiamm, Fluorsid Alkeemia, Fpt Industrial, Green Energy Storage, Italmatch Chemicals, Manz Italia, Midac, Solvay) e 2 centri di ricerca (Enea e Fondazione Bruno Kessler), consolidando il proprio presidio innovativo nel campo delle batterie di nuova generazione grazie agli investimenti programmati: l’erogazione di aiuti di Stato per oltre 600 milioni di euro produrrà un investimento totale di almeno 1 miliardo a livello nazionale.

In una nota il ministero dello Sviluppo economico ricorda che l’obiettivo del progetto è quello di creare una catena del valore sostenibile e innovativa che porterà l’Europa a produrre materie prime, celle, moduli e sistemi di batterie di nuova generazione e che consentirà la riconversione e il riciclaggio delle batterie con metodi innovativi e più efficienti. La scommessa è in atto e, come abbiamo potuto osservare, vi sono anche delle ombre che devono essere affrontate con urgenza dagli Stati, affinché la svolta «green», che non riguarda solo l’auto, si possa davvero trasformare in opportunità.

 

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