«I Tre Crocifissi»: il dipinto di Vincenzo Foppa all'Accademia Carrara di Bergamo

La riflessione dell'artista bresciano sulla crocifissione, espressa nel dipinto conservato a Bergamo dal 1764
Accademia Carrara di Bergamo - Foto dal profilo Facebook di Accademia Carrara Bergamo
Accademia Carrara di Bergamo - Foto dal profilo Facebook di Accademia Carrara Bergamo
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Si è soli davanti alla morte? Soli sul proprio crocifisso? Sì. O forse no, dipende dalla persona che si è, da ciò in cui si crede, dalla paura di ciò che c’è o non c’è oltre la nostra vita mortale e da molto altro. Anche Gesù in persona si chiede a un certo punto perché deve fare una fine così agghiacciante. Ce lo chiediamo un po’ tutti, prima o poi. Il dettaglio è che lui risorge dopo tre giorni e noi invece no.

I quesiti della settimana di Pasqua sono tre: in genere si preferisce la rinascita, che è la parte finale e decisamente la più piacevole, ma ci sono anche il dolore e la morte, senza cui tale percorso non avrebbe senso. Malgrado le orrendevolezze che ci sciorina ogni giorno il mondo, la morte per la nostra società è un tabù: non ci piace pensarci e, se dobbiamo, preferiamo farlo il meno possibile. Invece questa è la settimana giusta per rifletterci, ma sul serio. Magari senza giaculatorie fini a se stesse e pranzi di magro con il filetto di salmone, ma concentrandosi sull’evento in sé.

I Tre Crocifissi

Guardare un crocifisso aiuta, contemplarne uno bello (non è blasfemo definire bello un crocifisso, anzi) è meglio. Ce n’è uno, conservato all’Accademia Carrara di Bergamo, dipinto dal bresciano Vincenzo Foppa, classe 1427. Sappiamo che fu realizzato nel 1456 (o 1450) in aprile, non a caso in tempo di Pasqua. Il titolo è I Tre Crocifissi o Il Calvario.

Il dipinto «I Tre Crociffissi» di Vincenzo Foppa - © www.giornaledibrescia.it
Il dipinto «I Tre Crociffissi» di Vincenzo Foppa - © www.giornaledibrescia.it

Giacomo Carrara, raffinato collezionista e fondatore dell’omonima Accademia, adorava quest’opera, che riteneva la gloria della sua vasta collezione. Era entusiasta quando l’acquistò, nel luglio 1764. Non si sa da dove venisse né chi in origine l’avesse commissionata. È un mistero, come d’altronde la modalità scelta dall’artista per trattare il soggetto. Infatti, a differenza di miriadi di altre rappresentazioni, ai piedi del Salvatore non c’è nessuno, né i suoi carnefici né sua madre né i suoi amici. Eppure non è solo: al suo fianco ci sono i due tizi condannati alla sua stessa sorte, i ladroni.

La cupezza del cielo e del paesaggio verdastro, con Gerusalemme sullo sfondo, è degna dell’evento. I tre corpi lividi svettano su uno spaventoso Golgota. Davanti a loro un trionfale arco rosso sangue da una parte separa questo abominio da noi e dall’altra ci chiede di essere attraversato in un atto di Fede. A destra Disma, il cattivo ladrone, volta indietro la testa verso il diavolo nero che porterà la sua anima all’inferno. Non sembra contento, ma nemmeno pentito. A sinistra Gesta, il buon ladrone, china la testa verso il Re dei Giudei. Non perché s’illuda di ottenere qualcosa (che cosa, da uno inchiodato a un legno?), ma perché decide di credere. Perché c’è sempre la possibilità di cambiare, di guarire. Se non dalla morte, dal Male che, a volte senza saperlo, coltiviamo in noi. E dalla cupa oscurità che, se non stiamo attenti, ci accompagnerà, soli, nel sepolcro.

 

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