UniCatt, il professor Taccolini: «La qualità della vita è equilibrio»

Il docente e coordinatore delle strategie di sviluppo del polo di Brescia riflette su come cultura, fiducia e legami sociali siano la base del benessere collettivo
Mario Taccolini, prorettore dell'Università Cattolica del Sacro Cuore © www.giornaledibrescia.it
Mario Taccolini, prorettore dell'Università Cattolica del Sacro Cuore © www.giornaledibrescia.it
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L’espressione «qualità della vita» rappresenta un insieme di fattori economici, lavorativi, culturali e ambientali in un determinato contesto urbano. Ma non solo. Ne abbiamo parlato con Mario Taccolini, professore ordinario di Storia economica all’Università Cattolica del Sacro Cuore e coordinatore delle strategie di sviluppo del polo di Brescia.

Concorda con chi ritiene che la vivibilità di una città dipenda non solo dai servizi ma anche dalle capacità aggregative e sociali di quella comunità?

Convengo pienamente e convintamente. La qualità della vita, laddove sia intesa in senso integrale e compiuto, quindi non meramente statistico, non può esaurirsi nella disponibilità di servizi o nel reddito pro capite. Si tratta, anzitutto, di una qualificazione che abbraccia l’intera sfera dell’esperienza umana, ovviamente nel contesto del territorio di appartenenza: i legami sociali, ad esempio, la fiducia reciproca, ad esempio, la cultura dell’incontro, del dialogo, della partecipazione, della condivisa assunzione di responsabilità. Una città è realmente vivibile allorché si rivela capace di generare e coltivare relazioni e non soltanto infrastrutture; ancor più laddove sa configurarsi e proporsi come comunità prima che agglomerato urbano.

Nel caso di Brescia, questa connotazione pare particolarmente significativa: la nostra città ha saputo, nel corso del tempo, certamente dal secondo dopoguerra ai giorni nostri, coniugare sviluppo economico e coesione sociale, tradizione industriale, produttiva e solidarietà, confermando come il benessere collettivo trae origine dall’interazione tra capitale umano, capitale sociale e capitale etico e spirituale. Come abbiamo documentatamente esplicitato nel nostro volume recentemente edito, significativamente titolato «Brescia e la sfida glocale», il futuro della città e del suo territorio risiede nella capacità di essere glocale: radicato nel proprio tessuto identitario e, al contempo, proiettato in un orizzonte cosmopolita.

Oggi quali sono a suo avviso i punti di forza di Brescia e quali i più deboli?

Brescia si distingue per la solidità del suo tessuto economico e sociale, quale eredità di una tradizione imprenditoriale e cooperativa straordinaria. La cultura del lavoro, il senso di responsabilità civica, la presenza efficace e proattiva di istituzioni educative e sanitarie d’eccellenza, nonché un articolato sistema di welfare territoriale, rappresentano i caratteri qualificanti di un modello bresciano che continua a produrre valore e benessere diffuso. Un punto di forza peculiare è certamente rappresentato dalla vocazione educativa della città: l’Università Cattolica, insieme alle altre realtà accademiche e formative, concorre, in modo determinante, non solo alla crescita delle competenze, ma anche alla costruzione di un ethos condiviso, fondato su solidarietà, sussidiarietà e responsabilità civica.

Tra le fragilità, segnalerei la tendenza a una certa autoreferenzialità. Brescia, forte della sua identità e attitudine laboriosa e fattiva, talvolta fatica a riconoscere la dimensione simbolica e culturale del proprio sviluppo. Occorre accrescere la consapevolezza che competitività e vivibilità dipendono anche dalla capacità di essere città aperta, accogliente, attrattiva, capace di valorizzare la cultura come risorsa economica e identitaria. C’è ancora margine, direi, per un salto di qualità sul piano dell’internazionalizzazione e della promozione del capitale relazionale.

Quando può essere incrinato il rapporto spesso stretto tra ricchezza e benessere?

Il nesso tra ricchezza e benessere è ovviamente tutt’altro che automatico. Quando la ricchezza si riduce a mera accumulazione materiale e non si traduce in investimenti sul capitale umano, in equità, in opportunità diffuse, allora il suo legame con la qualità della vita si incrina profondamente. Esistono società ricche ma infelici, prosperità economiche prive di felicità collettiva. Il benessere autentico, per contro, nasce da una convergenza armonica tra economia e valori, tra efficienza e solidarietà, tra competitività e coesione. In questo senso, la ricchezza è condizione necessaria ma non sufficiente: diventa feconda solo se è accompagnata da una visione prospettiva, da una progettualità culturale e sociale di lungo periodo, capace di promuovere dignità, partecipazione, senso di appartenenza.

Dal suo osservatorio, come sono cambiati nel tempo i giovani, anche in rapporto alla formazione universitaria?

I giovani di oggi sono indubbiamente immersi in una realtà più complessa, più accelerata e più frammentata rispetto a quella delle generazioni precedenti. Tuttavia paiono esprimere e coltivare un radicato desiderio, una profonda ricerca di senso e di significato, di autenticità, di esperienze e di vissuti che coniughino sapere e vita, conoscenza e responsabilità.

Studenti dell'Università Cattolica © www.giornaledibrescia.it
Studenti dell'Università Cattolica © www.giornaledibrescia.it

L’università, in questo scenario, non può limitarsi a trasmettere competenze: deve formare persone, cittadini consapevoli, uomini e donne capaci di abitare la complessità, ancor più capaci di affrontare le sfide incalzanti e ineludibili che il tempo presenta, appunto nella sua contraddittorietà e complessità. L’esperienza della sede bresciana dell’Università Cattolica, che si declina efficacemente ormai da sessant’anni, testimonia quanto il legame dinamico tra città e università sia vitale e irrinunciabile: l’accademia, l’istituzione di alta formazione e di ricerca scientifica, non è una torre d’avorio autoreferenziale ed autosufficiente, ma parte integrante di un ecosistema che coniuga equilibratamente formazione, impresa, cultura e territorio.

Negli studenti di oggi mi pare di rilevare meno ideologia, ma più ricerca di equilibrio tra vita personale e impegno sociale. Si tratta di una generazione che chiede coerenza e autenticità, e che dunque interpella significativamente la generazione adulta, a cominciare dai docenti e dalle istituzioni educative, culturali, scientifiche.

La cultura personale migliora la qualità della vita?

Assolutamente sì. La cultura è una forma di libertà, ancor più una costante e pervasiva risorsa critica: consente di leggere e comprendere la realtà, appunto, con sguardo critico, di interpretare i mutamenti e non di subirli. Una persona colta, nel senso più ampio del termine, non meramente nozionistico ed erudito, si rivela assai più capace di vivere bene e meglio, perché possiede gli strumenti per comprendere, dialogare, discernere, decidere. In termini comunitari, la cultura diffusa è ciò che trasforma la convivenza in civiltà: genera fiducia, rispetto, dialogo, confronto, condivisione.

Per una città come Brescia, connotata da una solida, illuminata, appassionata tradizione civica, Brixia Fidelis fidei et iustitiae, come pure da una ben nota intraprendenza e operosità qualificata e lungimirante, investire in cultura significa consolidare la propria qualità della vita nel tempo: non solo istituzioni museali o eventi straordinari, ma anche educazione e formazione permanente, coltivazione e alimentazione di una cittadinanza responsabile e attiva. Come spesso non manco di rammentare ai miei studenti, «la conoscenza è il vero motore dello sviluppo umano».

La socialità della Gen Z è distante da quella delle generazioni precedenti. Sono venuti meno luoghi di aggregazione tradizionali come oratori, bar, piazze, circoli e sezioni di partito. E nonostante ci siano più «interazioni» (a distanza), tra i ragazzi emerge un bisogno crescente di incontrarsi e conoscersi. Quanto la preoccupa questo fenomeno?

Si tratta di un tema cruciale e decisivo, mi preoccupa certamente nella misura in cui segnala una particolare criticità, una diffusa fragilità delle reti sociali tradizionali, ma al contempo mi conforta e mi incoraggia per il diffuso desiderio, quasi istintivo e spontaneo, dei giovani di ricercare spazi di vero e proprio incontro reale. La generazione Z vive immersa nel digitale, ma non è per questo una generazione superficiale e approssimativa: è piuttosto una generazione alla ricerca di senso, di autenticità, di comunità realmente accoglienti e ospitali.

I giovani sono sempre più immersi nella tecnologia © www.giornaledibrescia.it
I giovani sono sempre più immersi nella tecnologia © www.giornaledibrescia.it

Il venir meno dei luoghi storici dell’aggregazione – gli oratori, le piazze, i circoli – non deve essere letto solo pessimisticamente come perdita, come declino, bensì come invito, come incalzante sollecitazione a ripensare nuovi luoghi, anche ibridi, capaci di coniugare virtuale e reale. Come educatori, abbiamo il dovere di intercettare queste domande, queste istanze, queste esigenze orientate a costruire spazi, fisici e simbolici, in cui le relazioni possano tornare ad essere esperienze virtuose, efficaci, costruttive, realmente e profondamente umane, non semplici e mere connessioni.

Cos’è fondamentale, a suo avviso, per una buona qualità della vita?

Direi, semplicemente ed essenzialmente, che una buona qualità della vita si genera da un costante e permanente equilibrio tra dimensione materiale e dimensione etica e spirituale, tra benessere individuale e bene comune.

Servono buoni servizi, ambienti sani, sicurezza, mobilità efficiente, ovviamente; ma tutto ciò non basta se manca la fiducia, la solidarietà, la possibilità di sentirsi parte di un progetto e di un orizzonte umanamente significativo e condiviso. A mio giudizio, gli ingredienti essenziali sono sei: coesione sociale, cultura diffusa, equità, bellezza, tempo per sé e per gli altri, e una governance pubblica ispirata al principio di sussidiarietà. La sfida per le città contemporanee pare proprio questa: mantenere un’identità forte pur aprendosi al mondo. È ciò che chiamo la dimensione glocale, nella quale il locale si fa universale senza smarrire le proprie radici.

Una domanda personale: nel corso degli anni cosa l’ha più aiutata per migliorare le sue condizioni di vita, in generale?

Mi ha aiutato, indubbiamente e anzitutto, la ricchezza, la profondità, la qualità dell’educazione ricevuta, un patrimonio singolare e prezioso per il quale non mi stancherò mai d’essere infinitamente grato, alla mia famiglia e ai miei intramontabili e decisivi maestri: il valore dello studio, della conoscenza, della ricerca, della sobrietà, della laboriosità, della dedizione nei confronti dei giovani e dei meno fortunati. Mi hanno altresì sostenuto, stimolato, confortato, accompagnato, le amicizie e le relazioni, quelle autentiche, coltivate e costruite nel corso del tempo, ininterrotte e costanti nelle successive stagioni della vita. Ed ancora, mi ha orientato il profondo e radicato convincimento, di evidente ispirazione cristiana e umanistica, che la vita sia un dono inestimabile, un incessante cammino di crescita, un’avventura che merita d’essere interpretata e vissuta in termini di responsabilità, di condivisione, di reciprocità, di dialogo e di confronto. Ho sempre creduto che la vera qualità della vita corrisponda alla capacità di dare significato e valore anche al proprio tempo: coltivare la mente, custodire gli affetti, ancor più servire il bene comune.

In fondo, a ben vedere, migliorare la propria vita significa imparare ogni giorno ad essere più umani, quindi più autentici e più veri, con sé stessi e con gli altri.

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