Se welfare e «green» diventano solo costi

Come la storia insegna assistiamo ad una serie di passaggi già vissuti nel passato con conseguenti processi di «riadattamento» al «vecchio che riemerge». Dopo gli anni dell’ubriacatura «green» e sul «welfare» si stanno ripresentando indirizzi che vedono le tematiche sulla sostenibilità e sull’attenzione ai «bisogni» delle persone come «costi» che deprimono il funzionamento del libero mercato.
Sono passati pochi anni da quando una lettura un po’ superficiali di Smith portava politici, accademici e la società ad enfatizzare il ruolo della «mano invisibile» e siamo di nuovo alle prese con un ritorno di fiamma di indirizzi che mettono mercato e profitto al centro assoluto del nostro vivere. Come è successo recentemente sul fronte della responsabilità sociale, il «pendolo» tende ad estremizzare sposando teorie, spesso non conosciute, senza un adeguato approccio pragmatico.
Se l’ideologizzazione estrema sul tema del clima ha portato la Ue ad immaginare di potere cancellare con un colpo di bacchetta magica la mobilità legata agli idrocarburi, se molti Paesi hanno dimenticato il nesso tra bisogni e risorse teorizzando modelli di welfare alimentati di una riduzione delle entrate per finanziarlo, oppure se si è sposata una logica di integrazione sociale e culturale senza dotarci di adeguati strumenti per agevolarne la realizzazione, oggi assistiamo a spinte su entrambi i fronti molto ideologiche e poco attente sia al come intervenire, sia agli effetti che azioni non programmate possono generare.
Ci sono alcuni difetti che ben conosciamo alla base di questi comportamenti. Difetti che ora sembrano essere esasperati sia dal ruolo che stanno assumendo le notizie non vere da una sostanziale miopia di chi è deputato a dare visioni. Il tutto condito dall’azione congiunta di ignoranza e superficialità nell’affrontare temi così importanti per il nostro presente e futuro. Va anche sottolineato che questo genere di approccio a «pendolo» si lega anche alla tendenza (non solo nazionale ma ben diffusa nel nostro Paese) di «sposare le mode» in modo acritico e, tendenzialmente, fideistico.
Chi, una ventina di anni fa, esasperava la mano invisibile (con i danni che ne sono derivati) ha avuto vita facile nello spostarsi repentinamente nel giardino dei «soloni del green» improvvisandosi cultore della sostenibilità e finendo per assecondare tutte le spinte verso una radicalizzazione dell’approccio verso il preservare il clima che, ha finito per rendere difficile creare una vera cultura della sostenibilità. Lo stesso vale sul fronte dell’approccio «sociale» in senso più o meno stretto. Purtroppo, la «moda» attuale, oltre a farci rischiare molto sia dal punto di vista sociale sia ambientale, rischia di farci buttare «il bambino» oltre che le inefficienze degli approcci che si vuole mettere nel dimenticatoio.
Chi su entrambi i fronti ha agito in modo razionale e pragmatico, dandosi la possibilità di sviluppare modelli che hanno finito con il diventare culture aziendali supportando le strategie di impresa ha, infatti, saputo, ad esempio sfruttare i dettami sulla sostenibilità per generare una cultura dell’innovazione che il «mettere in discussione» il modo di produrre o muoversi nel mercato ha permesso di realizzare.
Esempi virtuosi di questo genere ne abbiamo molti nella nostra realtà old e new. Aziende dove, ancora una volta senza cadute ideologiche acefale, si sono avviati tempi e modi di cambiamento stimolati da quella che gli accademici chiamano la Triple Botton Line (attenzione sistemica a persone, pianeta, profitto) che hanno sostenuto sviluppo, crescita di risultati e clima aziendale. Allo stesso tempo chi ha lavorato andando a creare meccanismi di integrazione adeguati (e ancor una volta non estremizzati da illuministiche linee guida inapplicabili perché profondamente lontane dalle nostre culture) ha potuto migliorare la propria capacità di attrazione di risorse umane e ridotto quel fabbisogno di lavoratori che zavorra ancora la nostra economia. Allo stesso modo chi oltre alle parole sulla natalità zero ha investito in asili nido aziendali, o di territorio, ha visto crescere fidelizzazione e natività in azienda.
Il rischio del «pendolo» si sta ripresentando e va ammortizzato rapidamente per evitare di cadere, di nuovo, in altre trappole determinate dal combinato disposto di ignoranza, superficialità e «adattamento» alle mode. Affrontare questo rischio potrebbe anche aiutarci a sottolineare le incongruenze e forzature che, oggettivamente, hanno generato difficoltà negli ultimi anni, trovando approcci realizzabili e virtuosamente in grado di sostenere progetti di sana crescita economica e sociale.
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