Volontà e possibilità, un connubio non scontato

Emanuele è venuto a cercarmi perché raccontassi la sua storia. Fa un lavoro notturno perché gli piace il silenzio e perché gli dà la possibilità di essere presente in casa durante il giorno. Non era questo il destino che aveva desiderato per sé. Le sue ambizioni erano molto differenti e la sua vocazione lontana miglia e miglia. Purtroppo, i desideri e i talenti non si coltivano sul terreno della volontà. Senza la possibilità anche il più energico degli slanci finisce per incepparsi.
Emanuele aveva la volontà, ma non ha trovato la possibilità. Si era dato un tempo ragionevole: qualche anno per mettere in atto tutti i tentativi possibili, fino a trent’anni e poi basta. Ad ascoltarlo, non si hanno dubbi ce l’ha messa tutta. Quando però si è reso conto che il traguardo restava a distanza fissa, ha pensato di mollare. Con piena consapevolezza ha archiviato quelli che comunemente chiameremmo sogni, li ha esiliati dai propri pensieri e si è rintanato (quasi alla lettera) in un angolo di mondo a cercare un nuovo equilibrio.
Quella di Emanuele è una vicenda che a raccontarla si spegne in pochi giri di frase e potrebbe essere vista come una questione di rinuncia e di abbandono, ma a leggerla meglio si vede quel che accade quando la narrativa personale stona rispetto all’epica che piace divulgare. Il talento, la capacità, la volontà, persino la caparbietà possono soccombere e non perché non siano abbastanza vigorose, ma semplicemente perché possono esistere, esistono e si ripetono situazioni antagoniste più prepotenti e meglio radicate.
La sfortuna c’è e ha nomi e cognomi. In un immaginario che vede trionfare l’idea di merito, chi si ritira è raffigurato come un perdente. Si preferisce attribuire la colpa di un fallimento al fallito piuttosto che ammettere che il merito malinteso può essere la più soffocante incarnazione del privilegio economico e sociale. Emanuele non è un fallito, ha realisticamente constatato che per inserirsi nel mondo che desiderava serviva altro rispetto a ciò di cui la sua estrazione sociale lo aveva dotato.
Serviva la possibilità di fare una gavetta, che significa poter essere mantenuti dalla famiglia per un arco temporale lungo. (No, non sempre fare «un lavoretto» è conciliabile con l’impegno per il lavoro e non sempre ripaga a sufficienza per automantenersi… provate a candidarvi come camerieri in un bar o come commessi, solo per citare i due mestieri che più probabilmente vi sono venuti in mente).
Serviva la conoscenza di meccanismi che si scoprono solo con il tempo, specie se la tua famiglia non ha mai gravitato in quell’ambito. Serviva che qualcuno avesse voglia di allargare il ventaglio delle opportunità oltre nomi amici o noti. Serviva quell’attitudine sociale a saper coltivare le relazioni che in parte è innata e in parte si apprende per imitazione nell’ambito familiare.
Emanuele ha fatto pace con la sua esistenza e già questo è molto. Dovremmo anche far pace con l’idea che il lieto fine non si scrive da solo, ma può anche essere scritto a più mani, a partire dal concetto di uguaglianza che, se male interpretato, può diventare la più falsa delle maschere.
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