Oltre il «velo», al di là di legge e religione c’è la convivenza civile

Riprende vigore la polemica, in realtà mai davvero sopita, sulla libertà di indossare nei luoghi pubblici il burqa o il niqab, vale a dire quegli indumenti che coprono interamente il volto lasciando solo piccole fessure per vedere. Il tema è molto delicato poiché la parola velo si associa immediatamente all’aggettivo islamico, diventando così un facile terreno di scontro che si presta a dare ulteriore vigore ai fautori dello «scontro di civiltà» e all’intensificazione della propaganda identitaria. In realtà, la questione del velo integrale non ha nulla a che fare con i principi religiosi, estetici o culturali e con i relativi simboli che li accompagnano.
O meglio, è vero che in alcuni contesti culturali, al «velo» è attribuito un significato religioso, di adesione a valori tradizionali e patriarcali. Ma, nel caso dei Paesi occidentali e del nostro in particolare, la discussione dovrebbe partire da presupposti diversi poiché a chi indossa il burqa non viene chiesto come mai lo fa, né deve esibire una qualche patente che l’autorizza a farlo. Cosa succederebbe se da domani scegliessero di indossarlo anche ragazze e donne atee, buddiste o cristiane?
Ciò su cui dovremmo dunque soffermarci quando parliamo di «burqa» e dintorni, sono soprattutto gli argomenti sui limiti necessari a garantire quella che un tempo era definita «civile convivenza», categoria da interpretare mettendo da parte la pure decisiva questione della legge, vale a dire del testo di Pubblica Sicurezza che vieta di comparire mascherati in un luogo pubblico. Bisognerebbe cioè cominciare a discutere il tema della presenza pubblica a partire dalla inviolabilità del volto umano.
Oggi più che mai, a fronte di questi fenomeni ma anche a partire dalla nostra recente esperienza di travisamento del viso per motivi sanitari, la questione del volto andrebbe considerata in una diversa prospettiva politico-culturale, tenendo presente che il volto non è una parte del corpo come un’altra, rappresenta la nostra identità, il legame con il mondo che ci circonda. Se vado in strada con le spalle, i capelli o i piedi coperti, magari sto esprimendo un mio modo di essere, uno stile di vita, un sentimento religioso, ma rimango comunque connesso con chi mi circonda.
🔵 La #Lega in Regione #Lombardia chiede al governo di estendere il divieto di burqa e niqab nei luoghi pubblici, in particolare nelle scuole. pic.twitter.com/hK34VevkW4
— Lega Lombarda - Salvini Premier (@LegaLombardaSP) January 28, 2025
Nascondere il volto nella pubblica piazza contiene invece un messaggio di separatezza, segretezza, aggressività incompatibile con una comunità che almeno su questo punto rivendica un’eguaglianza basata sulla comune natura umana. Ammettere che, in nome di qualsivoglia convinzione, le persone possano girare in pubblico con il volto coperto significa accettare la fine di quella reciprocità degli sguardi che ogni giorno, inconsapevolmente, avviene migliaia di volte, scambio alla pari di umanità a cui non possiamo rinunciare se non a prezzo di un sentimento di frustrazione e di insicurezza che sempre suscita ogni mancato reciproco riconoscimento.
Si tratta di una scelta – quella del volto scoperto – che, limitando forse la volontà di numerose donne e soprattutto di molti uomini, dovrebbe essere fatta non con argomentazioni di intolleranza, ma di accettazione di un principio di eguaglianza, quello tra volti, su cui si basa, ben prima di quello delle merci, il quotidiano scambio tra esseri umani. Non casualmente, nella nostra tradizione culturale, il carnevale, festa del travisamento per eccellenza, è, come c’insegnano gli antropologi, una forma di interruzione, breve e controllata, di un ordine identitario il cui funzionamento non conosce disparità perché dipende dalla virtuale quanto trasversale reciprocità di mascheramento che caratterizza l’azione di donne e uomini presenti alle feste rituali.
Inoltre, non possiamo non interrogarci sul fatto che tale mancato scambio paritario abbia una valenza squisitamente di genere. Non a caso il problema non si pone per gli uomini, ritenuti sempre, anche dalla più retriva delle culture patriarcali, parte costitutiva dello spazio pubblico. La donna, soggetto «imprevisto» e indegno di parità, al contrario, non può ricevere alcuno sguardo in cambio di quello che ha dato. Ecco dunque un ambito su cui l’Europa dovrebbe prendere una decisione che non sia imposta solo dai temi della sicurezza o del conflitto valoriale.
Porre il volto come simbolo non surrogabile del «pubblico» rappresenterebbe un principio unitario che ci costringerebbe in questa fase storica di grandi rivolgimenti demografici a ripensare, da europei, cioè a «viso aperto», il tema del riconoscimento dell’altro. E questo è un valore che deve essere riaffermato, non inseguendo solo i principi sanzionatori della norma violata, ma mediante una profonda opera di educazione alla cittadinanza europea.
Fulvio Cammarano – Docente di Storia Contemporanea, Università di Bologna
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