Tutti gli interrogativi sullo sciopero generale

Il modello di uno sciopero generale fine a sé stesso crea conflittualità con gli utenti e gli altri lavoratori se viene ripetuto troppo spesso, convertendosi in un’arma spuntata per il sindacato
Cortei per lo sciopero generale del 29 novembre - © www.giornaledibrescia.it
Cortei per lo sciopero generale del 29 novembre - © www.giornaledibrescia.it
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«Cosa resterà di questi anni Ottanta?», cantava Raf. E, si parva licet, che cosa resterà di questo sciopero generale (e delle altre recenti astensioni dal lavoro, sempre più ravvicinate e a tambur battente)? Uno sciopero sul quale, per l’ennesima volta, i sindacati confederali si sono divisi: a proclamarlo sono state Cgil e Uil, mentre non ha aderito la Cisl.

Naturalmente, se il fronte sindacale non si presenta all’insegna della compattezza delle rivendicazioni, la sua azione si indebolisce. È anche da questo stato oggettivo di cose che scaturisce il quesito intorno alla maggiore o sempre minore efficacia dello sciopero, non nuovo in assoluto, ma che appare sempre più serio in questi ultimi mesi di sua moltiplicazione esponenziale. E farsi questa domanda non significa affatto avere un «atteggiamento antisindacale», come sostiene un pezzo della sinistra più radicale - anche se, certamente, questo dibattito nei media vicini al destracentro acquista un significato differente (e schierato con le posizioni dell’esecutivo). Nondimeno, il tema resta - anzi, c’è proprio tutto.

Peraltro, nelle ore immediatamente successive allo stato di agitazione del 29 novembre è scattata la consueta guerra dei numeri intorno alle percentuali di adesione da parte dei lavoratori; una consuetudine acquisita molto problematica, che induce ormai a parlare della «scomparsa della realtà», specialmente sul lato del destracentro, dove si adotta pienamente in casi come questo quella retorica populista, impregnata di uno strumentale spirito postmoderno, che colloca tutto sullo stesso piano e rende i dati di fatto interscambiabili con le opinioni.

Anche per questo si pone l’esigenza di una riflessione sullo strumento dello sciopero generale e, più in generale, su quale sia il ruolo maggiormente appropriato per un grande sindacato quale la Cgil che si identifica sempre di più nella dimensione dell’attore politico, oltre che comunicativo, visto che Maurizio Landini è un comunicatore forte e punta molto su questo versante, commettendo in tal senso anche dei gravi errori come la frase sulla volontà di «rivoltare questo Paese come un guanto».

Così facendo si evidenzia, da un lato, la prevalenza della visione politica (quella di una determinata modalità ideologica dell’essere di sinistra) del suo gruppo dirigente più in linea con il segretario generale e, dall’altro, anche una certa debolezza: ovvero, la soggettività politica come reazione alle difficoltà crescenti di fronte alla domanda - o alla sua mancanza - di rappresentanza da parti di ampi settori di un mondo del lavoro sempre più frammentato e disperso. E qui si pone anche il nodo della rappresentatività, che richiederebbe una nuova normativa rigorosa per sgombrare il campo (e liberare i tavoli...) da svariate sigle che la rivendicano senza possederla davvero.

Naturalmente, di fronte a motivazioni di protesta legittime (e condivisibili sotto vari profili) quali quelle che stavano nella piattaforma del 29 novembre si delinea una solidarietà che induce ad accettare di sopportare alcuni disagi. Ma per produrre questa condizione occorre che lo sciopero venga ritenuto utile e, dunque, che le sue finalità siano considerate condivisibili dalla maggior parte della cittadinanza e non esclusivamente dagli iscritti all’organizzazione, come avviene da un po’ di tempo a questa parte mentre il numero delle agitazioni si infittisce giustappunto sempre maggiormente.

Il modello di uno sciopero generale fine a sé stesso, dunque, crea conflittualità con gli utenti e gli altri lavoratori se viene ripetuto troppo spesso, convertendosi in un’arma spuntata per il sindacato (ed evocando quasi il sorelismo e il sindacalismo rivoluzionario e massimalista di inizio secolo, le cui «suggestioni» riecheggiavano proprio nella formula landiniana sbagliata sulla «rivolta sociale»). Specialmente se lo sciopero si concentra nei servizi pubblici e crea inconvenienti ad altri lavoratori assai più che alla controparte governativa. Servirebbe, pertanto, modularlo, inventando altri strumenti maggiormente in linea con tempi. E utilizzarlo solo quale arma potente mirata, puntando piuttosto su una contrattazione più capillare e serrata: perché i sindacati - di cui esiste un assoluto bisogno ancor più in questa fase storica - devono essere anche e soprattutto soggetti contrattuali capaci di condurre delle trattative nell’interesse delle varie categorie dei lavoratori.

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