Sud Sudan, un Paese in cerca di stabilità

A quattordici anni dall'indipendenza non è ancora stabilizzato, con lotte interne tra le diverse fazioni di governo e scontri tra i vari gruppi armati locali. L'economia è in condizioni catastrofiche. E, come in tutti i Paesi africani, le contraddizioni sono ben visibili
Un affollato campo sfollati in Sud Sudan © www.giornaledibrescia.it
Un affollato campo sfollati in Sud Sudan © www.giornaledibrescia.it
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Era risuonato alla radio – moderno tam tam – l'invito ad andare a votare. Aveva raggiunto luoghi impervi e la gente si era messa in cammino. È il destino del popolo africano essere in cammino: donne con sulla testa ceste piene di masserizie, feriti che si trascinano alla ricerca di un ospedale, gruppi di fedeli all'alba diretti alla messa, profughi in fuga dagli attacchi terroristici.

Il 9 gennaio 2011 quasi un intero popolo era in cammino per andare alle urne. Quel popolo al 98,83% disse sì all'indipendenza dal Sudan. Dopo cinquant'anni, la guerra civile tra il Nord musulmano e il Sud, per lo più cattolico, era finita. Era nato il 54esimo stato africano, il Sud Sudan. In vista della proclamazione di indipendenza, fissata il 9 luglio, era partita l'operazione di make up. Ero lì un paio di mesi prima. A Juba, che poi sarebbe diventata la capitale, le strade venivano finalmente sistemate (anche se solo quelle urbane), e la città rimessa a nuovo.

Il 9 luglio 2011 era entrato nella storia: tutti i capi di Stato del mondo avevano voluto esserci. Tutti i media avevano coperto l'evento. Caso più unico che raro visto quanto l'Africa è dimenticata nelle narrazioni giornalistiche. Poco dopo, il Sud Sudan è entrato nelle Nazioni Unite, nell'Unione africana, nell'Autorità intergovernativa per lo sviluppo dei Paesi del Corno d'Africa e, nel 2012, ha firmato le convenzioni di Ginevra.

Ma non basta un po' di lucido per far svoltare uno dei Paesi più sottosviluppati al mondo. Così come non basta sancire la nascita di Istituzioni se prima non si forma la leadership.

Già a dicembre 2013, le forze governative del presidente Salva Kiir e quelle fedeli all'allora vice presidente Riek Machar, entrambi appartenenti all'ex movimento ribelle Sudan People's Liberation Movement (SPLM), poi partito di governo, se le davano di santa ragione in una contesa che è diventata un'altra guerra civile e che si è estesa a tutto il territorio nazionale fino al 2018, quando è stato firmato il Revitalized Agreement on the Resolution of the Conflict in South Sudan (R-ARCSS), che ha portato, a febbraio 2020, alla creazione di un Governo Transitorio di Unità Nazionale e, a maggio 2021, alla riapertura del Parlamento.

Il conflitto è stato subito bollato come etnico perché, se le guerre in Medio Oriente sono sempre di religione, quelle africane sono, appunto, sempre etniche o tribali. Repertorio standard dei resoconti dei media. È vero che Salva Kiir è dell'etnia da sempre dominante, i dinka (circa tre milioni di persone, ovvero il 18% della popolazione totale) e che Machar è nuer, le seconda etnia più importante del Paese (circa un milione e mezzo di persone), ed è anche vero che si tratta di etnie entrambe guerriere, litigiose da sempre, che si contendono le vacche (31 milioni di capi di bestiame), una sorta di «banca mobile» patrimonio del popolo, e per questo molto più considerate delle donne.

È anche vero che nello stato di Jonglei giovani armati hanno preso di mira i civili in base alla loro identità etnica. E l'etnia è elemento di protezione in uno Stato molto debole al di fuori dei centri urbani. Però non vanno sottovalutate neppure la lotta per il potere – Machar e altri avevano accusato pubblicamente il presidente Kiir di «tendenze dittatoriali» –, la presenza dei giacimenti petroliferi (destinati a esaurirsi nel giro di vent'anni) causa di cinquant'anni di contenzioso con il Nord, le risorse minerarie (oro, argento, ferro, rame, cromo, zinco). E l'enorme presenza di armi tra la popolazione, risultato di decenni di guerra e di quell'arsenale libico andato disperso dopo la morte di Gheddafi, rende il quadro ancor meno rassicurante.

Non credo che l'embargo deciso dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite possa avere molta presa su quegli uomini fieri, tra i più alti al mondo, che quando li incontravo mi mostravano con orgoglio il proprio kalashnikov.

Un campo rifugiati - Foto/Rawpixel
Un campo rifugiati - Foto/Rawpixel

A quattordici anni dall'indipendenza, il Paese non è ancora stabilizzato, con lotte interne tra le diverse fazioni di governo, e scontri tra i vari gruppi armati locali. L'economia è in condizioni catastrofiche. E, come in tutti i Paesi africani, le contraddizioni sono ben visibili.

Juba oggi è la seconda città più cara dell'Africa, dopo Lagos in Nigeria. Conta oltre un milione e mezzo di abitanti e conosce un'urbanizzazione selvaggia. Uno specchietto per le allodole, che attira investimenti dall'estero. Le banche sono quasi tutte kenyane, gli ugandesi costruiscono case, gli etiopi costruiscono hotel, palazzoni alti anche dieci piani, dove le camere costano 200 dollari a notte. L'élite è ricchissima, mentre sette milioni di persone soffrono di insicurezza alimentare e 2,3 milioni sono sfollate a causa dei conflitti e dei disastri climatici; la corruzione dilaga, la prostituzione è un grande affare; in un sistema legale ancora poco sviluppato, l'impunità la fa da padrona.

In questa situazione, il Paese si prepara alle elezioni parlamentari del prossimo 22 dicembre. La data è stata annunciata dalla Commissione elettorale nazionale (Nec). Ma gli osservatori internazionali si chiedono come sarà possibile organizzare il tutto in così breve tempo.

Le elezioni richiedono la demarcazione delle circoscrizioni elettorali attraverso un censimento, la registrazione degli elettori, dei partiti politici e dei candidati, il rientro di oltre due milioni di rifugiati all'estero, la stesura di una nuova Costituzione, l'unificazione delle forze armate, con l'aggregazione anche dei gruppi armati non firmatari dell'accordo di pace del 2018.

Occorre pianificare la logistica, per esempio come far sì che la popolazione raggiunga le sedi di voto in un Paese carente di infrastrutture e privo di sicurezza e, soprattutto, serve molto denaro per mettere in moto la macchina elettorale.

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