Sentenze e linguaggio: c’è un confine tra empatia e responsabilità?

Oggi vorrei soffermarmi su tre parole. La prima è «umanamente», la seconda è «comprensibile» e la terza «ripugnante».
Le prime due, pur esprimendo un giudizio, sono parole «giraffa». Per dirla con Rosemberg evocano assenza di violenza, empatia, senso di pietà, accettazione delle fragilità umane. La terza indica, a contrario, disgusto, repellenza, rifiuto e fastidio morale.
Le prime due sono state posizionate da un giudice all’interno di una articolatissima ed approfondita sentenza di 213 pagine emessa, i primi giorni di questo mese in relazione ad un caso di duplice femminicidio con dolo d’impeto. La terza è la sintetica ed efficace espressione del sentimento suscitato da quelle due parole, nell’animo dell’illustre avvocato Carlo Rimini e da lui raccontato sulle pagine del Sole 24 Ore.
Un sentimento che lo accomuna a numerose persone. Non si discute, né si commenta, la sentenza, cui viene riconosciuto, dallo stesso Rimini, e da tutti, un grandissimo spessore e approfondimento. Non si commenta la vicenda ed il quadro familiare che ha condotto un padre di famiglia di 70 anni ad attraversare tutte le cosiddette «stanze della brutalizzazione» (per dirla con Athens di cui ho parlato in questa rubrica) fino ad arrivare al «click emozionale» omicida.
Pochi hanno evidentemente letto le 213 pagine visto che l’uomo viene accusato dai media di cose che sono state smentite a livello probatorio. Non conta «l’ efficacia determinante che ha rivestito il contegno delle due vittime nella formazione della volontà omicida». Men che meno cercare di comprendere cosa abbia indotto l’estensore della decisione (una donna, per giunta) a sentire la necessità di inserire quelle rischiosissime parole umanizzanti, auto condannandosi, in tal modo, al ruolo di imputato.
«È un problema di linguaggio», ci ricorda Rimini, «un linguaggio che deve rispecchiare la civiltà del popolo in nome del quale la sentenza è pronunciata... Non possiamo permetterci ingenuità linguistiche». «Difficile davvero non riconoscere l’inappropriatezza di quell’aggettivo – incalza Errico Novi su Il Dubbio –: sarebbe utile al magistrato che estende una sentenza una migliore consapevolezza delle conseguenze mediatiche prodotte dalle proprie parole, prima ancora che dalle proprie decisioni».
La dimensione umana deve quindi spegnersi e contenersi in base al ruolo istituzionale o quando le parole possono avere un impatto mediatico. Siamo sicuri che questa sia la strada? O non sia, invece, ancora e sempre, un modo quasi infantile di negare il disordine (per dirla con la grande J. Morineau)? Perché negandolo e demandando alla giustizia il compito di difenderci, anche attraverso le parole, noi si abbia l’illusione di sentirci protetti dall’orrore della natura umana? E siamo sicuri che rinnegando l’orrore e la dimensione tragica dell’esistenza noi la addomestichiamo?
Cambiare nome all’uxoricidio ha diminuito i casi ed impedito i reati d’impeto? Non mi sembra, ahimè. Non può essere quindi che iniziando ad accettare la natura umana nella sua, a tratti orribile, complessità si possa cominciare a mettere in campo strumenti preventivi più efficaci che non la semplice delega morale al linguaggio della giustizia? Potremmo cominciare apprezzando la dimensione umana del giudice, anche se rivolta al reo, aggirando le trappole linguistiche imposte dai media che, trattandoci come cani di Pavlov ci impediscono, sempre più spesso, di abbracciare la complessità. Potete leggere qui la sentenza per esteso e decidere nel vostro intimo se vale la pena o meno di provare a cambiare prospettiva.
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