Propaganda e neoimperialismo: il ritorno di Donald Trump

«Operazione Shock and Awe» («colpisci e terrorizza») era il nome che venne dato dal Pentagono all’invasione dell’Iraq nel 2003. Mutatis mutandis, si potrebbe utilizzare la stessa denominazione per la cerimonia di insediamento di Donald Trump e, qualche giorno fa, per la sua prima conferenza stampa da presidente eletto. Un insediamento assai pirotecnico tanto per il programma enunciato che per i fatti seguiti alle parole (ovvero la raffica di ordini esecutivi immediatamente firmati), al punto da ribadire in modo nettissimo la metodologia comunicativa e propagandistica – quella che potremmo ribattezzare come «trumpropaganda» – del tycoon, il quale, non appena torna alla Casa Bianca per la sua seconda volta, ha giustappunto applicato il format «Shock and Awe».
In questo caso nell’accezione impiegata dal famoso studioso francese di storytelling Christian Salmon – e che può, «più pacificamente», venire tradotto in «colpire e stupire (ovvero, produrre sgomento)». Stretta sull’immigrazione (molto dura, con punte di disumanità, e le truppe prossime allo schieramento presso il confine meridionale), stop allo ius soli e alla cittadinanza acquisita per diritto di nascita, fine del Green Deal, nuovo ritiro dagli Accordi di Parigi sul clima, cambio del nome del Golfo del Messico, politica economica fortemente improntata ai dazi e al protezionismo commerciale, conquista di Marte, abolizione delle linee guida di regolazione dell’intelligenza artificiale, ripristino della pena di morte federale (e chi più ne ha, più ne metta).
Il discorso dell’Inauguration Day ha mostrato il carattere marcato di una sorta di sequel in stile «Trump 2, la vendetta», in un contesto di celebrazioni pre e post in cui i suoi mondi di riferimento si sono messi in mostra in una chiave che suggerisce l’assaporamento di una rivincita a lungo covata. Con tanto, per l’appunto, di vendetta destinata ad assumere proporzioni assai ampie: lo spoil system costituisce una pratica strutturale che viene attivata al cambio dell’Amministrazione, ma la sua partenza così istantanea e «avvelenata», con le dimissioni di decine di diplomatici e la retorica infuocata del movimento Maga contro il cosiddetto Deep State confermano chiaramente l’idea della punizione preparata per tempo. E che il vento sia massicciamente cambiato lo mostra anche la corsa dei padroni di Big Tech ad accreditarsi presso Trump, con la loro partecipazione in massa alla cerimonia inaugurale e ai vari eventi dei festeggiamenti: non soltanto i campioni della «tecnodestra» (i quali hanno giocato un ruolo effettivo nella sua rielezione), ma anche quelle figure come Mark Zuckerberg e Jeff Bezos che erano state scambiate per «miliardari progressisti».
Di sicuro, il Trump 2 genererà problemi non soltanto alla Cina, il nemico designato degli Usa di questo momento storico (indistintamente per i repubblicani come per i democratici). Ma anche all’Europa, perché sta accreditando una piattaforma politica che non è esclusivamente isolazionista (come da programma), ma che si configura alla stregua di una sorta di neoimperialismo americano, con tanto di ventilate annessioni territoriali. Accanto alla «trumpropaganda» si colloca il «trumpragmatismo» tipico del businessman, che lo indurrà in alcuni casi ritenuti strumentalmente opportuni o redditizi (in senso lato) ad «aggiustare il tiro», come già si è visto con Tik Tok.
Il punto è che l’Europa per il vecchio-nuovo presidente non presenta vantaggi o interesse sotto nessuno dei due profili, e rischia di pagare pegno in maniera molto pesante. Di qui le critiche, di cui si è fatto portavoce il candidato cancelliere della Csu-Cdu Friedrich Merz, nei confronti di Giorgia Meloni, la quale ha rapidamente spodestato Matteo Salvini come referente italiana del trumpismo. Nulla di cui stupirsi, anche per ragioni ideologiche: il camaleontismo della premier non fa sconti, né prigionieri (come nel caso, giustappunto, del vicepremier). E lei sta giocando senza sosta la partita della proiezione internazionale della sua leadership per la quale l’essere stata il solo premier europeo presente al giuramento dell’ex tycoon e di J.D. Vance vale come una green card a tutti gli effetti...
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