Lo Scudo di Achille e le affinità elettive

La Storia dei Conflitti è antica quanto l'uomo, il quale, nel tempo, ha trovato due modi veloci per ricomporlo: la violenza, della vendetta o della guerra, ed il processo. Una dicotomia ben rappresentata da Omero, nel diciottesimo libro dell'Iliade, laddove ci offre la minuziosa descrizione dello famoso Scudo di Achille. Commissionato da Teti ad Efesto, mostra nella sua circolarità, due città: una cupa e buia in preda ad una battaglia, la città della Guerra, e l’altra luminosa ed in fermento, la città della Pace nella quale, al centro dell'agorà si svolge un processo.
Sono raffigurati i contendenti, una folla vociante ed irrazionale, un terzo imparziale (istor), chiamato a decidere, unitamente agli anziani saggi (gherontes), che danno al verdetto finale il sostegno simbolico della comunità. Il processo quindi, sin dall'antichità sembra essere visto come il percorso migliore per la mitigazione della violenza scaturente dal conflitto. Eppure capita spesso che per rimediare al «torto» subito dal giudice, una causa finita diventi l'innesco della successiva, soprattutto nell’ambito delle relazioni familiari, dove la sfera dei sentimenti e dei bisogni sottostanti, non potendo trovare attenzione, cura e trasformazione all'interno del processo spesso rende il conflitto e la ricerca di soluzioni definitive processuali, un moto perpetuo, senza fine.
Gli stessi confliggenti sempre, irrimediabilmente, uniti esattamente da ciò che li separa. Agganciati ad una guerra perenne proprio a causa della relazione ormai finita. In questo strano groviglio di paradossi cade, come manna dal cielo, la Mediazione. Non un’ alternativa tra le tante, ci ricorda Maria Martello, grandissima esperta, ma una necessità che risponde a una richiesta profonda di «umanizzazione della giustizia».
«È un porto dove le persone arrivano, trovano ristoro e poi partono. È una via di pace non solo perché volta alla soluzione del conflitto ma perché fa toccare le emozioni le fa riconoscere e governare attraverso l’empatia e la compassione, ovvero l’accoglienza del dolore». Centrale la figura del Mediatore, il suo valore, le sue capacità e le sue modalità operative.
Ma, quali sono le doti di un buon mediatore? Ce le ricorda la stessa Martello: «Che abbia incontrato la propria violenza – nessuno può guidare gli altri oltre il punto in cui lui stesso si trova –; che sappia gestire il dramma con l'umiltà di chi accompagna; che sappia ascoltare senza offrire soluzioni o finti paradisi idilliaci; che non cada nella trappola della ricerca di soluzioni forzate, ma accompagni i mediandi alla ricerca, a volte buia, di soluzioni; che sia creativo e flessibile, adattandosi in maniera individualizzata alle situazioni che gli si presentano.
In definitiva, richiamandoci alla più famosa figura letteraria di mediatore, il Mittler (che in tedesco significa proprio «mediatore») delle «affinità elettive» di Goethe (il cui vanto era: «di non entrare mai in una casa in cui non ci fosse una disputa o difficoltà da risolvere») ed agganciandosi alle reazioni chimiche poste alla base dell'opera, potremmo affermare che il Mediatore non è altro che un catalizzatore umano, «una specie o sostanza che provoca un'azione in o tra due altre specie chimiche» affinché non si distruggano reciprocamente nel tentativo irrazionale di distruggere l'altro.
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