I presidenti americani e il sogno della pace

Ogni Presidente degli Stati Unti all’inizio del suo mandato nutre l’ambizione di passare alla storia come colui che sia riuscito a risolvere la questione che da quasi otto decenni ormai infiamma il Medio Oriente e che ha come fulcro lo Stato di Israele, ovvero il suo diritto ad esistere. Una questione che storicamente fu legata prima all’opposizione dei paesi arabi, poi andò legandosi a doppio filo con lo speculare diritto palestinese. Il primo a dare una risposta significativa al problema mediorientale, o almeno a uno dei problemi, considerato la fonte primaria dell’instabilità regionale, fu Jimmy Carter.
Jimmy Carter, recentemente scomparso all’età di cento anni, con gli Accordi di Camp David nel 1978 riuscì a imporre un dialogo diretto tra Sadat e Begin, che porterà alla normalizzazione delle relazioni tra Egitto e Israele e alla chiusura della lunga stagione delle guerre arabo-israeliane. Un successo che politicamente non fu sufficiente a far dimenticare lo smacco subito dalla sua Amministrazione con l’assalto alla sede diplomatica americana a Teheran e la conseguente presa di ostaggi tenuti prigionieri per 444 giorni da un gruppo di studenti islamici.
MEDIO ORIENTE | Secondo il Wall Street Journal, che cita fonti arabe, il leader de facto di Hamas a Gaza, Muhammad Sinwar, è d'accordo in linea di principio con i termini dell'accordo per il rilascio degli ostaggi e il cessate il fuoco. #ANSA https://t.co/Ube0ybhoOE
— Agenzia ANSA (@Agenzia_Ansa) January 15, 2025
Quindici anni dopo fu la volta di Bill Clinton, principale sponsor degli accordi di Oslo i quali daranno vita all’Autorità Palestinese, primo tentativo di individuare una istituzione palestinese con il diritto, riconosciuto da Tel Aviv, di governare su alcuni dei territori occupati. Non fu sufficiente, né per il Medio Oriente, né per Clinton, ricordato dalle cronache forse più per lo scandalo Lewinsky che per il suo contributo al tentativo di dare stabilità alla regione.
Di tregue fragili e di paci flebili la storia del Medio Oriente ne è tristemente ricca. Tuttavia il cessate-il-fuoco tra Hamas e Israele oggi assume contorni molto significativi, per almeno quattro motivi. Innanzitutto segna il risultato una collaborazione non comune tra due amministrazioni di segno politico opposto: democratica e repubblicana, soprattutto se la prima in politica estera è stata su taluni scacchieri assente e inconcludente, e l’altra fin troppo proattiva ancor prima di essere in possesso del potere esecutivo. È questo un dato politico importante sottolineare, poiché segno tangibile che l’interesse nazionale negli Stati Uniti è comunque prevalente e trascendente gli stessi schieramenti politici.
Un plauso va sicuramente al Segretario di Stato Blinken, l’unica figura di rilievo in una amministrazione democratica asfittica, il quale dallo scoppio della guerra tra Hamas e Israele ha effettuato undici viaggi nella regione per cercare una soluzione negoziale tra le parti, con l’ausilio di Egitto e Qatar. Dall’altra parte un non meno importante ruolo è stato giocato da Steve Witkoff, nome rinomato nel mondo immobiliare e ora Inviato speciale di Trump nell’area, che ha potuto ottenere questo primo successo grazie anche alla politica del bastone e della carota alla quale il tycoon ci ha abituati.
Day 467 - Gaza. pic.twitter.com/ocbcs8HmaW
— TIMES OF GAZA (@Timesofgaza) January 15, 2025
Solo qualche giorno fa il futuro presidente aveva infatti minacciato che avrebbe «scatenato l’inferno» se Hamas non avesse rilasciato gli ostaggi. Un’intimidazione accolta con grande plauso da Netanyahu che ha sempre visto in lui uno strettissimo alleato, al contrario di Obama e di Biden e che a quanto pare ha sortito un effetto concreto vista l’evoluzione di ieri. Sul piano militare l’accordo è un primo passo verso una pacificazione potenzialmente duratura, visto che i due principali gruppi combattenti Hamas e Hezbollah hanno perso la maggior parte della loro capacità offensiva. Decapitati nei quadri ed enormemente ridimensionati nelle forze d’attacco, vedono anche i territori sui quali operavano essere oggi occupati da Israele.
Day 465.
— Israel ישראל (@Israel) January 13, 2025
We cannot and will not rest until
Naama and all of the hostages are home. pic.twitter.com/47i3elG0b0
A livello locale una pacificazione duratura significa mettere mano alla ricostruzione integrale della Striscia di Gaza, dal valore stimato di 80 miliardi di dollari, e poi, auspicabilmente a un nuovo progetto di Stato sovrano, non prima di aver proceduto alla sua bonifica dall’amianto, presente nella maggior parte delle abitazioni e forse dell’uranio impoverito, il cui uso sarà probabilmente oggetto di inchieste da parte dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica su richiesta palestinese.
Sul piano regionale all’affare si sono mostrati interessati l’Egitto e il Qatar, due dei principali interlocutori nella risoluzione del conflitto e l’Arabia Saudita, che vede nella stabilità d’area un prerequisito imprescindibile per sviluppare il Saudi Vision 2030, il piano di diversificazione economica che renderà la ricchezza del paese meno dipendente dagli idrocarburi e per il quale Riyadh ha già investito 1.300 miliardi di dollari e che per la stabilità, bin Salman è stato disposto anche a riappacificarsi con l’Iran.
Under #SaudiVision2030, mining is becoming the third pillar of industry. With a focus on sustainable mining, we are unlocking the Kingdom’s vast mineral wealth to power industries and create materials essential for everyday life. pic.twitter.com/HEmlND7SQV
— رؤية السعودية 2030 (@SaudiVision2030) January 14, 2025
Il prossimo passo, riprendendo gli Accordi di Abramo, frutto della Prima amministrazione Trump sarà la normalizzazione con Israele. Sembra dunque che il sogno dei presidenti statunitensi sia un poco più a portata di mano, frutto di una collaborazione non solo tra repubblicani e democratici, ma di più ampio respiro internazionale, basato sì su interessi economici. Un tempo si diceva c’est l’argent qui fait la guerre. Oggi pare invece che i soldi spingano alla tregua. Ma poco importa. Basta che torni la pace.
Michele Brunelli – Docente di Storia ed istituzioni afroasiatiche, Università di Bergamo
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
Iscriviti al canale WhatsApp del GdB e resta aggiornato
@News in 5 minuti
A sera il riassunto della giornata: i fatti principali, le novità per restare aggiornati.
