Il Parlamento messo ai margini: il potere è nelle mani di pochi leader

In Italia si è ormai affermato l’a-parlamentarismo: il Parlamento è diventato un organo passivo, mentre il Governo è controllato da pochi
La Camera dei deputati - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
La Camera dei deputati - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
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Il 23 febbraio scorso, l’82,54% dei tedeschi ha votato per il rinnovo del Bundestag, la Camera bassa equivalente all’incirca al nostro Montecitorio. Si è trattato di una grande prova di democrazia: il messaggio lanciato dal popolo alla classe politica è che, di fronte ad un pericolo (l’AfD) o a una fase storica delicata, la partecipazione elettorale è alta.

A ben vedere, mentre un secolo fa le fragili democrazie europee (escluse quindi quella solidissima inglese e in parte quella francese) venivano travolte da un’ondata di antiparlamentarismo (con le stesse accuse – e, grosso modo, le stesse finalità – che oggi vengono rivolte all’Europarlamento), nei singoli Stati la tendenza è un’altra. Non la critica alla dannosità del dibattito e della mediazione in Aula, ma la presa d’atto della traslazione verso una ristretta oligarchia di tutti i poteri e delle funzioni dei parlamenti.

Quando deputati e senatori sono scelti dai leader, quando non possono fare altro che votare come già deciso altrove, quando le mozioni d’Aula sono scritte in altri luoghi (fra pochi capi partito o fra capi corrente, poco importa), quando le leggi d’iniziativa parlamentare si contano sulle dita d’una mano, quando i decreti-legge e la legge di bilancio si approvano senza perder tempo e quasi senza discussione, quando i lavori delle commissioni sono interrotti per far presto, quando le commissioni d’inchiesta servono più ad affermare la volontà già scritta di una maggioranza che le ha volute, quando ci vogliono mesi per eleggere i giudici costituzionali perché lo scambio ad alto livello fra i posti richiede tempo e trattative fra i leader: in tutte queste occasioni il Parlamento ha già perso, non schiacciato da furie popolari e da dittatori come negli anni Venti e Trenta del Novecento, ma semplicemente svuotato e reso inutile, quando invece potrebbe offrire un grande contributo, soprattutto ricordando che la nostra è una Repubblica parlamentare (a proposito: la «grande riforma» del premierato non procede perché di fatto è stata già attuata a Costituzione vigente).

Non ha vinto l’antiparlamentarismo (che non esiste nei singoli stati, perché non ci si scaglia contro chi non ha la forza di contare, ma esiste in Europa, dove comunque l’Europarlamento è simbolo di quell’Ue che alcune forze politiche e anche qualche stato straniero desiderano abbattere) ma si è affermato l’«a-parlamentarismo».

Il rapporto governo-parlamento è da tempo unidirezionale: l’Esecutivo stesso è nelle mani di pochi leader che ne decidono la politica, poi le Camere ratificano. I singoli deputati e senatori contano solo se hanno scalato i rispettivi partiti, altrimenti sono costretti a intervenire raramente (più di frequente in Commissione, dove pochi li ascoltano) e comunque senza che le loro parole abbiano un seguito.

Restano le interrogazioni e le interpellanze, ultimo simulacro di dibattito che però procede sempre nei binari prestabiliti. In quanto alle audizioni nelle commissioni, o se ne fanno troppe per ingolfare tutto, o ci si trova come giorni fa – con Draghi in Parlamento a relazionare e a rispondere alle domande – a vedere rondini che non fanno primavera. Sommersi dalla richiesta di «decisionismo», di una politica muscolare che nulla lascia al confronto dialettico ma solo «alle carte in mano» che si hanno, il Parlamento lentamente affonda nell’oblio. Una grande riforma sarebbe riscoprirlo e valorizzarlo: ma nell’era dell’oligarchia dei leader, è bene non farsi venire questa «pericolosa» idea.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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