Pace o riarmo? Il dilemma europeo e il ruolo dell'Italia

Adalberto Migliorati
Se quasi tutti invochiamo il bene della pace, ci dividiamo subito prima e appena dopo sul come realizzarla concretamente
Una bandiera della pace - © www.giornaledibrescia.it
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La guerra. Nei nostri pensieri a raggio immediato è entrata la guerra come priorità che ci interpella direttamente. Non una generica attesa di sicurezza messa in forse da un mondo che procede al contrario, proprio la chiamata alle armi. Per una pace che non ci è più assicurata da terzi, che ci erano storicamente garanti, e che viene strapazzata da concorrenti realtà, che vogliono affermare il loro predominio con l’uso della forza.

Se quasi tutti invochiamo il bene della pace, ci dividiamo subito prima e appena dopo sul come realizzarla concretamente. Investendo in un più di armamenti a tutela del proprio status di benessere messo al centro del bersaglio? Puntando sulla permanente legittimità di precedenti trattati e sulla razionalità delle diplomazie chiamate a trovare convincenti mediazioni? Il problema è che gli schieramenti a favore di una impostazione o dell’altra si mescolano e mutano velocemente in ragione del modo di proporsi dei massimi protagonisti. Gli amici di un tempo possono diventare avversari attuali, i nostri contendenti tramutarsi in operatori convergenti per uno specifico problema, in ragione di posizioni di fondo che restano divergenti. Di chi ci si può fidare?

Si tenderebbe a poter non decidere, lasciando ad altri l’onere delle scelte. Ma non è possibile: i problemi esistenziali premono su fragili porte che non possono reggere agli urti in campo. La pace, di cui abbiamo fin qui fruito, è uscita da una guerra mondiale e dai successivi aggiustamenti intervenuti sullo scacchiere internazionale. Un equilibrismo che non tiene più e ci vede risucchiati nell’occhio del ciclone. Armarsi significa riconvertire una quota parte dei bilanci nazionali ed europei in una economia di guerra.

Non assicura la tenuta del sistema gradito, talmente ampio è il ritardo militare evidenziato, mentre pone da subito interrogativi pesanti sul contesto del benessere sociale. Benessere fin qui raggiunto, ci viene imputato, a spese altrui, che non vengono più erogate, anzi vogliono essere recuperate in saldo. Quale lo spazio operativo di un sentimento di pace che voglia sostituirsi alla logica di una guerra a tutto campo? Una funzione mediatrice tra le parti in conflitto. Prima di tutto chiede di non essere riconosciuta come portatrice di conflitto. Poi di riconoscere che la guerra c’è e accettare che la mediazione deve comportare costi per gli uni e per gli altri. Così da evitare che venga percepita come tregua tra vincitori e vinti, da rimettere in gioco non appena i perdenti recuperino qualche posizione di manovra e i vincenti premano troppo sull’acceleratore dei debiti da recuperare.

Una precarietà governata dalle armi. In Europa marciano entrambe le posizioni, in ragione dei ruoli delle diverse nazioni. La pace non imbelle riuscirà a stare in campo se chi se ne farà portatore saprà guardare in faccia la realtà e se ne farà carico. L’Italia, non solo per la presenza attiva del Papato, può giocare carte importanti per essere parte dialogante, che consente di andare a vedere cosa effettivamente Russia e Stati Uniti intendono diventi il nostro continente. Vedere e agire in nome della propria non banale storia.

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