Nessuno è infrangibile

«La storia di Marta non è eccezionale. È l’esatta rappresentazione della relazione che abbiamo con la vita che nasce: ci piace quando risponde alla nostra visione, in alternativa siamo capaci di odiarla mortalmente e di soffocarla con il sorriso»
«Accade il possibile: Marta è incinta» - Foto/Unsplash
«Accade il possibile: Marta è incinta» - Foto/Unsplash
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Marta è stata adolescente all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso. Mentre attorno divampava la protesta giovanile e prendeva piede quella che poi sarebbe passata sotto il nome di rivoluzione sessuale, nel suo piccolissimo comune la vita familiare scorreva sui canoni di una solida tranquillità un po’ arretrata, molto schiva, sostanzialmente fossile.

Gli affetti e gli istinti però non tengono d’occhio né le cronache né le tendenze. Marta s’innamora del ragazzo belloccio che viene da un paese poco lontano e che ha conosciuto alle giostre della festa patronale. La relazione diventa probabilmente a doppio binario: per Marta è la sorpresa di una possibilità per lei inedita e nella quale si tuffa con più entusiasmo che buonsenso; per lui deve essere una storia in più di cui vantarsi.

Accade il possibile: Marta è incinta. La bieca sequenza della rapida sparizione del neopapà scivola via prevedibile e triste. Nella cornice che circonda la sua esistenza, Marta diventa la protagonista di un copione già scritto ma che nessuno ha voglia di riscrivere perché in fondo il pettegolezzo di paese faceva sugo ben prima che si chiamasse gossip, alimentato a destra e a manca e recepito in famiglia come il combustibile su cui arrostire la vergogna, infiammare il rancore e alimentare il senso di colpa.

La nonna pudicamente (sic!) le suggerisce un aborto (che pare nella dimensione privata abbia peso diverso che nelle dichiarazioni pubbliche). Marta rifiuta. La madre le suggerisce di andarsene al più presto. Marta, nel 1975, nella fiorente Lombardia, viene esortata a diventare un’esiliata. Rifiuta di andarsene. Sua figlia Anna nasce nella primavera del 1976. Non è una vita facile quella che segue, ma calza la maschera della normalità: «Che uscissi a divertirmi non era previsto, in casa consideravano mi fossi divertita fin troppo e, del resto, gli altri lo pensavano senza dirmelo. Era un paese di gente molto… benpensante».

Anna ha circa l’età in cui sua madre la mise al mondo quando le conseguenze di un’improvvisa infezione le tolgono la fertilità. In prima istanza. Marta si sente quasi come se sua figlia fosse stata messa in salvo da un pericolo incombente e lo racconta a fatica: «Il trauma che mi è stato inflitto mi ha indotta a vedere la maternità come un incubo. Sembra che essere forti sia una virtù, ma il rischio è scordarsi che nessuno è infrangibile».

Per fortuna Marta non si è rotta del tutto e sente che quel pensiero è un sassolino che inceppa l’ingranaggio del suo futuro emotivo. «Ho pensato che dovevo riprendere in mano la mia vita, fintanto che ero in tempo». Marta se ne va, perché ha smesso di vedere nell’allontanamento una fatica per cominciare a intravedervi una soluzione.

Anna va con lei. Cambiano provincia, cambiano ambiente. Anna cresce e si sposa e Marta collabora con lei e il marito dopo che hanno scelto l’affido. «Avevo bisogno di riconciliarmi con l’esistenza» racconta. Del resto, il percorso lo aveva già cominciato: Marta ha fatto a lungo la maestra alla scuola dell’infanzia. Ecco, la storia di Marta non è eccezionale. Purtroppo la trovo l’esatta rappresentazione della relazione che abbiamo con la vita che nasce: ci piace quando risponde alla nostra visione, in alternativa siamo capaci di odiarla mortalmente e di soffocarla con il sorriso.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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