Le miliziane Rojava 10 anni dopo

Chissà che cosa ne è delle donne curde che hanno combattuto lo Stato Islamico, dopo l’auto proclamazione a califfo di quelle terre di Abu Bakr al-Baghdadi? Era il 29 giugno 2014. Dopo qualche giorno, il sedicente leader religioso pose sotto assedio la città di Kobane, nel nord-est della Siria, nella regione autonoma de facto, chiamata Rojava, al confine con la Turchia.
A maggioranza curda, dal 2012 è governata dall’Unità di Protezione Popolare (YPG), la cui brigata femminile - Unità di Protezione delle Donne (YPJ) -, balzò agli onori delle cronache per l’intraprendenza e la capacità guerriera, diventando un fondamentale alleato delle forze statunitensi lì stanziate, anche per la liberazione di Kobane, avvenuta nel 2015. Diciottomila donne su un totale di 45mila combattenti.
Fu un momento eccezionale o fu vera emancipazione? All’epoca le donne curde furono mitizzate, immortalate dalla stampa, con foto che ne evidenziavano l’avvenenza, banalizzando così, non solo il loro impegno, ma anche il progetto quarantennale di lotte per la libertà. Prima di tutto, hanno dovuto combattere per l’emancipazione all’interno della propria società e delle proprie famiglie, perché le quattro zone in cui il Kurdistan è diviso - Iraq, Iran, Siria, Turchia - sono state storicamente caratterizzate da società patriarcali.
La discesa in battaglia è stata, quindi, la conseguenza di un percorso di consapevolezza. Niente di poetico, come le copertine dei magazine potevano far pensare. La guerra è sempre e solo imbruttimento. Le combattenti hanno visto l’orrore, hanno ucciso e sono state uccise, come la sedicenne siriana Viyan Antar, o la venticinquenne turca Ayse Deniz Karacagil, «cappuccio rosso», unitasi alla causa filo-curda dopo essere stata condannata a un secolo di galera per aver partecipato alle dimostrazioni al Gezi Park di Istanbul.
Hanno subito derisioni, oltraggi e insulti sui social. Sono state uccise anche quando hanno combattuto solo con la parola, com’è accaduto a Hevrin Khalaf, segretaria generale del Partito per il Futuro della Siria, paladina dei diritti delle donne e di una Siria multi identitaria, o a Sakine Cansiz, Fidan Dogan e Leyla Soylemez, le tre attiviste del PKK giustiziate a colpi di pistola a Parigi nel 2013: un triplice omicidio mai chiarito. Facevano paura allora e fanno paura adesso le curde, la cui indipendenza può essere presa a esempio da tutte le donne del mondo impegnate per l’autodeterminazione. Nel 2014, nel Rojava, erano riuscite a far cambiare le leggi in modo che venissero proibiti la poligamia e i matrimoni delle minorenni. E avevano costituito le YPJ, diventate poi, appunto, cardini della rivoluzione.
Non era stato facile creare un esercito femminile, auto gestito, auto organizzato, auto addestrato. Ma ce l’avevano fatta, ed erano temute dai miliziani dello Stato Islamico, per i quali essere colpiti da una donna è disonorevole.
«Nel 2012 ho lasciato il Regno Unito per unirmi alle combattenti dell’YPJ», mi disse Zeyneb Alî. Come lei, tante altre. Anna Qereços (Anna Campbell, prima donna britannica a morire nel Rojava), Lêgerîn Çiya (Alina Sanchéz, dottoressa di origine argentina, ha partecipato alla realizzazione del sistema sanitario; è morta in un incidente stradale a Hesekê nel 2018), Avasîn Têkosîn Günes (Ivana Hoffman, tedesca, è morta nel 2015 combattendo): sono tutte considerate Sehîd, martiri.
Quando arrivò, Seyneb rimase stupita: «Nel Rojava la popolazione curda aveva costruito un’énclave di libertà basata sui principi della democrazia, dell’ecologia e della liberazione delle donne, ispirata dal pensiero di Abdullah Öcalan, leader del Partito dei Lavoratori, nelle carceri turche dal 1999, che afferma che, per comprendere la storia dell’oppressione dei popoli, bisogna studiare l’oppressione della donna. Mi sono resa conto che quel luogo, dove si attua il Confederalismo democratico, dove convivono tre milioni di persone di varia etnia, oltre ai curdi, ci sono yazidi, turcomanni, arabi, di religioni e culture diverse. Era inconsueto, totalmente differente da qualsiasi cosa avessi vissuto politicamente nel Regno Unito. Le donne del Rojava partecipano alla pari con gli uomini al sistema politico e sono impegnate nella società a tutti i livelli».

Finita la sbornia mediatica, quelle donne sono state dimenticate dalla comunità internazionale, nonostante lo Stato Islamico sia ancora presente nell’area. Ne ha parlato ai colleghi del Manifesto, Noroz Khoja, nome di battaglia Ruksen Mihemed, a Roma lo scorso 8 marzo per un dibattito con i giovani.
«Nell’ambito delle Forze Democratiche Siriane, gestiamo il campo di Al-Hawl, dove vivono le famiglie sfollate dei combattenti di IS, e dove la radicalizzazione cresce. I bambini vengono addestrati per uccidere, con il rischio di una nuova generazione di terroristi. Ci sono poi circa 12mila membri di Daesh rinchiusi nelle prigioni di tutto il nord-est della Siria, di sessanta nazionalità, i cui Stati di provenienza non hanno alcuna intenzione di riprenderseli. Vere e proprie guide ideologiche, sono un potenziale esplosivo. Infine, dobbiamo difenderci dagli attacchi della Turchia, che non ha mai nascosto il suo desiderio di distruggere il nostro progetto sociale».
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