La svolta verso una nuova dimensione familiare

La giraffa di velluto verde mi guarda con lo sguardo sornione del saggio che ha compreso tante cose: è stata un’amica, una guida discreta nell’uso delle parole. Dietro di lei il murale color panna del labirinto di Chartres continua a ricordarmi che ci sono cammini dentro noi stessi che non possono essere evitati. Ovunque il profumo che ci ha avvolti per mesi e la musica dolce che, quasi inavvertita, ha fatto da colonna sonora alle nostre discussioni.
I fazzoletti di carta, le caramelle, la lavagna intonsa, la scatola che chiudeva i nostri smartphone (a sigillo di una riservatezza che è un valore), le carte delle emozioni, le pareti color salvia e le poltrone di velluto verde dentro le quali spesso siamo sprofondati per tirare, finalmente, un po’ il fiato; il quadro con la metamorfosi di Olivier Heron, la cornice di legno bianco, ora vuota, dentro la quale abbiamo messo, ogni volta, le foto dei nostri figli per ricordarci per chi stavamo lavorando.
Li sto salutando, ad uno ad uno, con tristezza. Non l’avrei detto, è come uscire da un utero materno. Siamo qui a scrivere un capitolo importante di una storia iniziata dando i numeri: quelli sbagliati. Cercavo l’amministratore del mio condominio, ho premuto un 3 invece di un 8 e mi ha risposto un ingegnere informatico con la passione per l’alpinismo.
Cercavo di litigare per una storia di lastrici solari e spese condominiali e mi sono ritrovata a fare l’amore in una tenda canadese sulla Marmolada. Dicono che gli opposti si attraggono. Non lo so, noi eravamo un corto circuito continuo: una scossa ad ogni bacio. Fra un black out e l’altro, per sfuggire all’incedere del buio, ci siamo messi a dare alla luce creature, senza che questo aiutasse, anzi. Hanno suonato al campanello e fra poco lo vedrò arrivare insieme a colei che ci ha condotti con pazienza e fermezza verso questo risultato. Lui mi sorriderà e ricambierò sincera.
Solo qualche mese fa prendevo pillole per dormire e mi aggiravo rabbiosa e livorosa, con tutto e tutti. Mi sentivo in un tunnel senza uscita. Solo incrociarlo mi dava la nausea. Per noi parlavano gli avvocati. Le cose da dirci avevano il sapore amaro delle rivendicazioni, delle vendette tradotte in cavilli codicistici. I figli, in mezzo, anche senza volerlo. La rabbia a farla da padrona, anche se fa stare male. Poi ho preso un treno e quando sono scesa la mia vita era cambiata. Qualcuno mi aveva lasciato un libro nella borsetta. Ho pensato fosse uno scherzo, un errore.
L’ho aperto a caso, a pagina 17, ho divorato le restanti pagine nel bar della stazione Centrale. Parlava di mediazione, di mediazione umanistica. L’autrice una piccola donna francese dagli occhi limpidi come diamanti. Mi piacerebbe che il donatore anonimo avesse un volto o di poter sospettare di qualcuno ma ero così presa da me stessa e divorata dalla disperazione che a malapena ricordo chi fosse seduto di fronte a me.
Dopo un paio di giorni ero qui a fare il primo colloquio informativo ed esplorativo. Ho avuto la fortuna che il padre dei miei figli si fosse incuriosito. E così grazie, a quel dono inaspettato, ogni cosa ha preso nuova forma e fra poco sigilleremo un nuovo patto, creato da noi, che ci fa guardare avanti fiduciosi e ci proietta in una nuova dimensione familiare: una famiglia con nuovi connotati ma pur sempre una famiglia, unica e originale, diversa da prima, ma sempre e comunque nostra, nel bene e nel male. Perché essere genitori, è l’unica cosa che ha un per sempre certo, certissimo.
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