Opinioni

I sogni d’oro navali di Trump e l’ipertrofismo dei sette mari

Dalla visione muscolare di The Donald per una nuova United States Navy alle criticità industriali e strategiche che ne mettono in dubbio la fattibilità
Un'anteprima grafica diffusa dalla US Navy della nuova nave da guerra trumpiana
Un'anteprima grafica diffusa dalla US Navy della nuova nave da guerra trumpiana
AA

«Golden fleet», flotta d’oro. Un Trump da sempre ossessionato dall’aureo metallo immagina così il futuro della US Navy: nella conferenza stampa prima di Natale ha presentato, assieme al segretario per la Marina John Phelan, il rendering delle due nuove «battleship» (navi da battaglia, nome storicamente dato alle corazzate) della Classe Defiant, destinate a essere seguite da altre otto, per giungere sino a venti. Vascelli imponenti, da 35mila tonnellate, lunghi 290 metri, al costo di 15 di miliardi di dollari l’uno; portaerei a parte, sarebbero le più grandi navi da guerra entrate in servizio negli Usa dopo le corazzate della Seconda Guerra Mondiale: gli incrociatori Ticonderoga, in servizio da fine Anni ’80 e vicini al pensionamento dislocano infatti 9.800 tonnellate, oltre tre volte di meno.

Le nuove «corazzate» saranno armate con 140 lanciatori verticali per missili antiaerei e antimissile, ipersonici e cruise, anche a testata nucleare; oltre ad artiglieria tradizionale imbarcheranno anche «rail gun» (ovvero cannoni a rotaia magnetica, tecnologia oggi tutt’altro che matura) con raggio d’azione di 350 km e armi ad energia diretta (laser). A spingerle saranno reattori nucleari modulari in miniatura che soddiferebbero la fame di energia di questi sistemi d’arma.

The Donald ha forse inteso rilanciare una gara muscolare con la prossima reintroduzione in servizio dell’incrociatore russo Admiral Nakhimov, gigante a propulsione nucleare da 20mila tonnellate, armato con ben 176 missili: figlio della Guerra fredda, questo vascello classe Kirov era in porto dal 1999 e i lavori di ripristino, iniziati nel 2013, si sarebbero conclusi solo quest’anno (e, certo, resterà esemplare unico). Dal canto suo la Cina sta varando i nuovi incrociatori Type 055, classe Renhai, armati con 112 pozzi di lancio per missili: modernissimi, ma assai più «piccoli», con una lunghezza di 180 m e una stazza di 13mila tonnellate (comunque quasi il doppio di quella di una fregata italo-francese Fremm).

Al di là dell’ipertrofismo mediatico, l’annuncio trumpiano suscita però almeno due grandi perplessità.

In primo luogo, negli attuali scenari non ha alcun senso concentrare tanta costosa tecnologia in pochi mega vascelli. Missili e droni marini sono infatti una minaccia sempre più incombente (lo hanno appreso drammaticamente a loro spese i russi nel Mar Nero) e mettere in mare obiettivi paganti così grandi è un errore strategico: sarebbe difficile per chiunque, infatti, sopportare in un sol colpo una tale perdita. Il ruolo di «nave arsenale», tra l’altro, sarà sempre più facilmente ed efficacemente svolto da vascelli unmanned (ovvero teleguidati) assai più piccoli.

In secondo luogo, l’attuale condizione della cantieristica navale americana è quanto meno insoddisfacente e rende poco credibile l’obiettivo 2030 annunciato per le due battleships. Si registrano infatti gravi deficit di manodopera e nelle infrastrutture, tra le quali si «salvano» quelle che costruiscono sottomarini nucleari e portaerei: i rivoluzionari cacciatorpediniere Zumwalt, oggetto di costosi ripensamenti, si sono infatti arenati dopo tre soli esemplari; le Lcs (Littoral combat ships, fregate leggere) si sono rivelate operativamente quasi inutili rispetto all’idea che le aveva generate, mentre la futura classe di fregate Constellation, basata su quella delle nostre Fremm è stata addirittura cancellata e sarà «tamponata» con vascelli assai più modesti derivati da quelli della Guardia costiera.

Il problema è congenito a molti progetti americani: pretese troppo alte di concentrare tecnologia, innovazione e potenza spingono i costi alle stelle e complicano la vita dei costruttori e della forza armata, alle prese con manutenzioni sempre più gravose.

Intanto i cinesi varano un incrociatore ogni 26 mesi e contano di portare entro il decennio il numero di unità navali combattenti a 400, mentre la Us Navy non si stacca dalle 390. Chissà cosa penserebbe Ronald Reagan, il cui ritratto campeggia nello Studio Ovale, che aveva lanciato a inizio presidenza l’obiettivo di una Marina di 600 navi: nel 1990 era arrivato a 588.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

Iscriviti al canale WhatsApp del GdB e resta aggiornato

Argomenti
Icona Newsletter

@News in 5 minuti

A sera il riassunto della giornata: i fatti principali, le novità per restare aggiornati.

Suggeriti per te

Caricamento...
Caricamento...
Caricamento...