La strage di bambini e il ruolo di Hezbollah

Il peso del «Partito di Dio» in Medio Oriente e i possibili scenari della crisi con Israele
Funerale dei combattenti Hezbollah uccisi negli attacchi israeliani nel Libano meridionale - Foto Epa © www.giornaledibrescia.it
Funerale dei combattenti Hezbollah uccisi negli attacchi israeliani nel Libano meridionale - Foto Epa © www.giornaledibrescia.it
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«È colui che sceglie per alleati Allah e il Suo Messaggero e i credenti, in verità è il Partito di Dio, che avrà la vittoria». È questo il versetto coranico che svetta sulla bandiera di Hezbollah, movimento sciita nato nel Libano della guerra civile dei primi anni Ottanta. Una scelta politica e militante indicativa, poiché far riferimento alla parola di Dio significava cercare di convincere i propri adepti che ogni azione portata avanti dal gruppo sarebbe stata eseguita per il volere dell’Altissimo.

Da allora Hezbollah, il «Partito di Dio», ha subìto molte trasformazioni. Da gruppo paramilitare, il primo che in epoca moderna sfruttò la tattica dell’attentato suicida proprio sul teatro libanese contro i contingenti della Forza multinazionale di interposizione, è andato in parte trasformandosi in forza politica, sedendo di diritto all’interno del Parlamento di Beirut, in parte è diventato vero attore sociale, portatore di welfare laddove il governo centrale è assente, ma soprattutto, forte di aiuti economici e militari iraniani, di solide ramificazioni internazionali anche in America Latina.

Aiuti che gli consentono un flusso costante di denaro, oggi è probabilmente l’attore non statuale meglio armato al mondo, con diverse decine di migliaia di razzi, missili e pezzi di artiglieria, in grado di colpire le principali città israeliane nell’arco di 75 secondi.

Contro Israele

Da sempre contro lo Stato di Israele, che nella sua becera retorica definisce «un tumore canceroso», Hezbollah – vera longa manus di Teheran nel Vicino Oriente – rappresenta una costante spina nel fianco per la sicurezza israeliana sul fronte settentrionale.

A quasi trecento giorni dal conflitto tra Israele ed Hamas, mentre a Roma sono riuniti i capi dell’intelligence del Qatar, Egitto, Usa e Israele alla ricerca di una soluzione negoziale del conflitto, sembra paradossalmente realizzarsi uno dei falliti disegni strategici elaborati dal Movimento Islamico di Resistenza: quello di impegnare Gerusalemme in una guerra su più direttrici, obbligandola a disperdere le proprie forze.

L’intento primario, oltre a quello riuscito di mostrare al popolo israeliano l’incapacità del Governo di proteggere i propri cittadini, andando a destrutturare quello che dal 1948 è l’archetipo e il mito fondante di Israele, era di far insorgere i miliziani di Fatah in Cisgiordania ad est e indurre Hezbollah ad attaccare da nord, formando così un triplice fronte di guerra. Fu l’Iran, impegnato in una grave crisi economica, sanitaria e politica interna a frenare gli ardori bellicisti di Hassan Nasrallah, Segretario del Partito e a scongiurare una potenziale escalation del conflitto. Sebbene mai del tutto pacificato, il settore nord ha sempre visto un conflitto mantenersi su un piano di relativa bassa intensità, fino all’attacco missilistico sciita contro la cittadina di Majdal Shams dell’altro ieri.

Le minacce dei missili

I missili di Hezbollah rappresentano due minacce concrete ma distinte per Israele. La prima è data dagli effetti tattici di questi sistemi, volti a sopprimere o isolare le pattuglie di militari per limitare l’efficacia delle operazioni. La seconda, più di carattere strategico, è data dal loro effetto coercitivo e contempla attacchi contro obiettivi sia civili, come centri abitati e infrastrutture, sia militari, funzionali a mantenere alta la pressione su Israele e sulla sua popolazione, cercando di fiaccarne il supporto alla guerra.

Che opzioni ha Netanyahu

Al di là dell’immediata reazione dell’aviazione israeliana, le opzioni del Governo di Netanyahu sono almeno quattro. Un ritorno alla strategia della deterrenza, garante della pace dal 2006, basata sull’idea che la minaccia di una guerra, inclusa la possibile distruzione di alcune aree del Libano e di attacchi punitivi contro il Gruppo dissuaderà Hezbollah dal lanciare attacchi contro Israele. Si tratta di una minaccia diretta alla vita dei suoi leader, al loro potere e soprattutto al benessere dei suoi elettori e sostenitori.

Una seconda opzione contemplerebbe una guerra totale contro il Partito, per distruggerne le capacità, sulla scia della strategia applicata contro Hamas. Scenario oggi quantomeno irrealizzabile per lo sforzo economico e bellico che Israele sta sostenendo da 10 mesi, per la crescente debolezza politica del Governo e altrettanto pericoloso, poiché potrebbe scatenare la reazione dell’Iran e dei suoi affiliati.

Impegnarsi in un conflitto limitato e preventivo per cercare di distruggere gran parte dei suoi arsenali e impedire che si possa organizzare per un attacco su vasta scala; benché una simile azione permetterebbe a Hezbollah di rimarcare la solidarietà con Hamas e di reclutare nuovi adepti, galvanizzati dalla guerra.

In ultimo, un quarto scenario, tanto auspicabile quanto di difficile realizzazione: dare seguito alla Risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che prevede la cessazione delle ostilità tra Israele e milizie sciite libanesi di Hezbollah, segnale importante per una tregua duratura anche con Hamas. Opzione dai costi politici non sostenibili dai contendenti, poiché ognuno avrebbe la percezione di un cedimento ai voleri dell’avversario, ignari ormai che la sconfitta dell’uno non significhi necessariamente la vittoria dell’altro, ma dalla valenza umanitaria altissima: la fine dello stillicidio di interi popoli.

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