Gli Usa e il malessere che fa crescere la violenza

Polarizzazione, violenza e teorie della cospirazione si nutrono vicendevolmente creando una miscela pericolosissima e vie d’uscite si fatica francamente a intravederne in un paese così lacerato
Un ufficiale della Homeland Security - Foto Ansa/Epa/Cristobal Herrera-Ulashkevich © www.giornaledibrescia.it
Un ufficiale della Homeland Security - Foto Ansa/Epa/Cristobal Herrera-Ulashkevich © www.giornaledibrescia.it
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Un altro tentativo di attentato a Trump. Un’altra possibile tragedia sfiorata. La violenza irrompe nuovamente nella campagna elettorale statunitense. Una violenza di matrice politica che ha visto una crescita esponenziale negli ultimi 10-15 anni, in parallelo con la polarizzazione e l’imbarbarimento del confronto politico e del discorso pubblico.

Bisogna ovviamente essere molto cauti nell’individuare rigidi nessi causali tra l’asprezza della contrapposizione politica e la sua deriva violenta. Non si può però non essere colpiti dai dati che annualmente l’Fbi produce sul terrorismo interno. Dati, questi, che mostrano appunto un aumento significativo degli atti di violenza politica. In conseguenza del malessere di una parte del paese, della crescente delegittimazione della politica e delle stesse istituzioni, del riaffiorare di tensioni razziali dalle matrici profonde e, infine, di una contrapposizione nella quale democratici e repubblicani tendono sempre più a rappresentare gli uni gli altri non come normali avversari politici, ma come nemici assoluti ed esistenziali, il cui accesso al potere va bloccato a ogni costo.

In poco più di dieci anni abbiamo avuto gravi attentati a importanti figure politiche (la deputata democratica dell’Arizona Gabby Giffords, quello repubblicano della Louisiana Steve Scalise), il tentativo di rapimento di una governatrice (la democratica Gretchen Whitmer del Michigan), l’assalto al Congresso dopo due mesi di tentata eversione costituzionale finalizzata a impedire la pacifica transizione dei poteri (il 6 gennaio 2021), il tentativo di uccisione del marito della speaker della Camera, la democratica Nancy Pelosi, e una miriade di atti di violenza minore. Aventi per bersaglio, questi ultimi, sempre più persone ed esponenti politici. E di cui sono stati molto spesso autori degli individui radicalizzati ideologicamente dentro l’insano brodo della polarizzazione, delle teorie della cospirazione che si diffondono senza sosta sul web e della demonizzazione dell’avversario.

Difficile che questo nuovo, sventato attentato possa avere delle ripercussioni elettorali significative. Potrà, quello sì, galvanizzare la base trumpiana e alimentare quella retorica sovraccarica, e finanche apocalittica, che Trump sa utilizzare con indubbia efficacia. Così come alimenterà le dietrologie cospirazioniste di una parte e dell’altra: di chi (a destra) immagina chissà quali complotti orditi ai danni dall’ex Presidente dallo Stato profondo o da élites globaliste che ne temerebbero il ritorno al potere e magari un disimpegno dal teatro ucraino; o di chi (a sinistra) già sostiene che si tratti di un imbroglio – così come lo sarebbe stata la ferita all’orecchio due mesi fa – architettata dallo stesso entourage di Trump per validarne il vittimismo ed aiutarlo alle urne.

Polarizzazione, violenza e teorie della cospirazione si nutrono vicendevolmente creando una miscela pericolosissima per la tenuta di una democrazia in patente difficoltà quale è quella statunitense. Iniettano ulteriore tossicità nel corpaccione affaticato e sofferente di questa democrazia. La espongono, tra le altre cose, all’azione dei suoi nemici, sempre attivi nel fomentare divisioni e spargere veleni. Il ciclo elettorale, che peraltro negli Usa si dispiega ormai quasi senza soluzione di continuità, non aiuta, esasperando la contrapposizione e la retorica livorosa che l’accompagna.

Vie d’uscite si fatica francamente a intravederne, in un paese così lacerato. E il solo, banale auspicio è di non dover assistere ad altre tentate violenze nelle settimane che precedono e in quelle che seguiranno il voto del 5 novembre.

Mario Del Pero - Docente di Storia internazionale, Sciences Po Parigi

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