Gli affanni del Movimento 5 Stelle

Sono decisamente agitate le acque nel Movimento 5 Stelle in vista dei prossimi appuntamenti - la fase costituente - in cui sono in gioco identità e futuro della formazione politica che fa capo a Giuseppe Conte e non più al suo fondatore – con Gianroberto Casaleggio - Beppe Grillo.
Chi ha guardato con atteggiamento equanime i percorsi del Movimento, dalla «eroica» stagione delle origini agli sviluppi più recenti, non ha potuto che rilevarne una double face. Da un lato l’espressione di una postpolitica - postmoderna e postconvenzionale -, retta su di un modello reticolare capace di dare voce a un universo altrimenti anonimo, desolidarizzato e desocializzato, attraverso la creazione di un’agorà virtuale disintermediata: un mix di ingenuità e velleitarismo che ha perseguito il mito della democrazia diretta, il cui terminale sarebbe il parlamentare «portavoce del popolo». E ancora: la teorizzazione di natura populistica secondo cui «uno vale uno» - uno sfregio alla competenza e al merito - accompagnata dalla predicazione antipartitica per cui ormai anacronistica sarebbe la distinzione tra Destra e Sinistra.
Dall’altro lato la funzione svolta di parlamentarizzare, istituzionalizzandole, pulsioni diffuse a rischio di derive inquietanti- ad esempio il caso dei gilet gialli in Francia-, nonché l’attitudine a definire un’agenda programmatica orientata, al di là delle ricette proposte e delle soluzioni realizzate, su temi di indubbio rilevo: la partecipazione, la difesa e la promozione della legalità, la tutela dell’ambiente, la lotta alla povertà, l’impegno per la pace.
Nel passaggio non certamente indolore delle consegne da Grillo a Conte questa double face di nuovo si riproduce: da una parte il camaleontismo trasformistico dell’«avvocato del popolo» che passa con nonchalance dall’alleanza con Salvini a quella col Pd, denotando un opportunismo che gli assicura un ruolo di primattore per due intere fasi; dall’altra parte una leadership in grado di contenere la progressiva decrescita del Movimento dopo l’apoteosi del 2018, nonché di compiere scelte importanti per il Paese: la gestione dell’emergenza Covid, comunque più efficace di quella condotta in altre nazioni occidentali, la negoziazione del Pnrr che ha assicurato all’Italia la disponibilità di ingenti risorse e la scelta europeista di sostenere la «maggioranza Ursula» osteggiata dai nazional-sovranisti, scelta però poi revocata dopo la sconfitta riportata nelle recenti consultazioni.

Oggi una secca alternativa: o il ritorno alle origini, perseguito da un Beppe Grillo, non più l’«Elevato» ma il «decaduto», ridotto ad un megafono di scarsa risonanza, ormai privo di appeal che non sia quello di un teatrante che ha fatto il suo tempo, oppure l’avvio di un nuovo percorso attraverso un partito non solo abilitato a fare opposizione all’attuale governo della Destra ma in grado di costruire con altri una praticabile e vincente alternativa.
Dunque non l’evocazione di una nostalgia e tantomeno del passato di una illusione, ma una sfida che il Movimento 5 Stelle deve portare a sé stesso. Anzitutto su due piani: quello della forma partito e quello delle alleanze da costruire. Ambedue lungo una traiettoria di maturazione e di decantazione di quanto, nell’esperienza vissuta, si è dimostrato caduco, incompatibile coll’attuale fase politica. In sostanza, un partito non personale, retto da un codice democratico di regole, trasparente quanto alla sua organizzazione e alle modalità attraverso le quali si definisce una linea politica, nonché sorretto da un impianto ideale meno abborracciato, se non addirittura confusionario.
Un partito in grado di darsi un radicamento territoriale non solo a livello geografico - oggi prevalentemente il Mezzogiorno -, ma pure sociale. Un Movimento 5 Stelle non semplicemente preoccupato delle proprie sorti, ma che si faccia carico dei destini della democrazia italiana. In proposito più di un osservatore ha sottolineato il fatto che uno dei maîtres à penser del Movimento, il sociologo Domenico De Masi purtroppo scomparso, non ha mai nutrito dubbio alcuno su quale fosse il campo di appartenenza, cioè quello progressista. Il Movimento 5 Stelle, sgomberato da settori da tempo fuoriusciti in tutte le direzioni, si trova dunque nella condizione di dover varcare il proprio Rubicone. Non nel segno della resa, ma del coraggio di un nuovo inizio, per un cammino non certo facile, da costruire sapientemente, senza ambizioni di prevaricazione e senza sindrome di subalternità.
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