Meloni in Senato: la strategia per l’unità sul piano ReArmEU

Il discorso di Giorgia Meloni in Senato in vista del Consiglio europeo di domani e dopodomani è stato elaborato in modo tale da garantire l’unità della maggioranza di governo sui temi cruciali della guerra e della pace mentre Trump e Putin discutono di tregua in Ucraina. Tanto è vero che ieri sera la mozione del centrodestra è stata approvata senza difficoltà dall’assemblea di Palazzo Madama. La chiave di questo compromesso – che non doveva smentire il voto favorevole al Parlamento europeo di FdI e Forza Italia al piano «ReArmEU» contro cui si è schierata la sola Lega al pari di M5S e sinistra radicale – consiste nel ridimensionarne il significato e soprattutto «gli annunci roboanti», per usare un’espressione della presidente del Consiglio.
Non respingere il piano insomma ma delimitarlo. Tant’è che si risponde a chi chiede «meno armi e più sanità» che non si toglieranno soldi allo sviluppo, per la ragione che gli 800 miliardi previsti dal piano von der Leyen consentiranno semmai ai singoli Stati di fare più deficit per aumentare le spese di sicurezza, le quali non sono destinate ad un esercito europeo («non è all’ordine del giorno») ma ad una difesa coordinata tra i paesi membri il cui rafforzamento «non significa per forza comprare altre armi».
In ogni caso Meloni assicura che non ci saranno soldati italiani in funzione di interposizione in Ucraina («il sostegno alla quale non è mai cambiato») mentre il progetto anglo-francese di una forza di «volenterosi» viene definito «rischioso e poco efficace». E così si arriva al punto centrale: l’Europa, dice la premier, non può difendersi da sola e non deve staccarsi dagli Stati Uniti, semmai deve rafforzare il proprio pilastro nella NATO e sostenere gli sforzi di pace del presidente Trump. Significativo l’accenno ai dazi imposti da Washington: «non servono rappresaglie perché alla fine da una guerra commerciale perdono tutti» (il punto però è che a cominciare coi dazi è stato Trump, e l’Europa semmai è stata costretta a varare delle contromisure).
Come si vede Giorgia Meloni ha cercato una linea mediana che è, in politica estera, «equivicina» a Washington come a Bruxelles, e in politica interna riesce a non provocare rotture o polemiche con gli alleati, con Tajani e Salvini che rappresentano i due punti di vista più contrapposti. Certo non è facile navigare in queste condizioni, si rischiano accuse di ambiguità e tentativi altrui di marginalizzazione in tempi di ferro in cui la necessità di schierarsi si fa ogni giorno più imperiosa, più drammaticamente imposta dai muri che vengono eretti frequentemente. Ma è pur vero che a questo che potremmo chiamare equilibrismo del governo, si contrappone una opposizione che magari riesce ad andare in piazza (quasi) insieme ma poi è altrettanto divisa quando si tratta di votare in Parlamento, tant’è che ieri in Senato sono state presentate cinque mozioni per cinque partiti del centrosinistra (senza contare le spaccature interne). Bene o male, il centrodestra è riuscito a votare una sola posizione che è quella che Meloni porterà domani al Consiglio europeo.
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