Opinioni

Empatia, anticorpo sociale contro l’apatia digitale che domina il mondo

Gli esseri umani incarnano un principio che nessuna macchina potrà replicare: l’arte di soffrire con e per gli altri, trasformando il dolore in balsamo collettivo
Una ragazza da sola mentre guarda lo smartphone - © www.giornaledibrescia.it
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«Sono nato alla fine di agosto del 1913 come creatura umana di sesso maschile (...). Sono nata, come drosofila, due ore prima del sorgere del sole. Morrò stasera dopo il suo tramonto. Sono nato il 1° gennaio del 1968 come creatura umana di sesso maschile (...). Sono sempre stato nato (...). Mi ricordo di esser nato come rovo di rosa canina, pernice, ginkgo biloba, lumaca, nuvola di giugno (il ricordo è assai breve), fiore autunnale turchino di croco intorno a Halensee, ciliegio precoce gelato da una tarda neve d’aprile, come neve che ha gelato l’ingannato albero di ciliegie…Io siamo».

Questo è il memorabile incipit de «La Fisica della malinconia» di Georgi Gospodinov, flusso di coscienza di un giovane affetto da una strana sindrome: soffre di empatia. Una «sindrome» che lo costringe a vivere nel labirinto dei sentimenti mai provati, delle cose mai accadute eppure per lui reali, più reali del reale stesso. Sull’empatia tanto ci sarebbe da dire. Certamente è il tratto fondamentale del mediatore.

Un ruolo sacro nel quale, sembrerebbe impossibile, si sta facendo spazio l’intelligenza artificiale. Lo stato della ricerca («L’empathie de l’IA dans la médiation: quand les machines semblent nous comprendre» di Michael Lardy) ci mostra come sistemi di LLM (Large Language Model) siano perfettamente in grado di riconoscere emozioni e suggerire riformulazioni concilianti, superando, addirittura, gli esseri umani in alcuni test di intelligenza emotiva. Molti mediatori ne fanno uso.

Può un algoritmo cogliere le sfumature dell’anima? Simulare sentimenti che non può provare? È una seducente illusione? L’empatia ha però una sua dimensione poetica, come ci ricorda Robert Von Sachsen Bellony, nel suo bellissimo contributo: «Nell’era dell’individualismo sfrenato, dove l’ego si erge a monumento digitale e l’indifferenza diventa valuta sociale, esiste una razza silenziosa di esseri umani condannati a un destino sublime. Sono gli empatici: architetti involontari di connessioni, prigionieri di una sensibilità che li costringe a sentire il mondo non come confine, ma come epiderma condiviso. Un vizio virtuoso, un paradosso esistenziale che li trasforma in angeli sterminati, destinati a curare ferite che non hanno inflitto».

In questo senso l’empatia ci appare come un anticorpo sociale in un mondo dominato dall’apatia digitale. Questi uomini e donne, portatori sani di questo gene, incarnano un principio che nessuna macchina potrà replicare: l’arte di soffrire con e per gli altri, trasformando il dolore in balsamo collettivo. Jeremy Rifkin nella «Civiltà dell’empatia» ci ricorda che la storia umana è un’estensione progressiva del nostro cerchio di compassione. Dalle tribù arcaiche alla attuale prospettiva planetaria, la sopravvivenza non si fonda sulla competizione, ma sulla capacità di «sentire con».

La questione, quindi, non è domandarsi se l’IA possa diventare empatica, ma se noi, nell’era degli algoritmi, sapremo proteggere e coltivare questa risorsa umana, rara, antica, fragile e potentissima. L’empatia è un destino dell’anima e se, come Rifkin ci ricorda, l’empatia può evolvere, anche la tecnologia può diventare parte di questo processo, diventando uno strumento che amplifica la nostra spinta evolutiva verso un ethos collettivo, solo se guidata da menti umane consapevoli.

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