Congo, tra vecchi sospetti e nuove promesse di pace

La popolazione resta scettica, perché di tentativi di accordi di pace finora ce ne sono stati almeno cinque, ma sono sempre stati disattesi, e allora la domanda che aleggia è: «Perché stavolta dovrebbe essere diverso?» In realtà qualcosa di nuovo c'è. La dichiarazione di principi per mettere fine ai conflitti nel Nord e Sud Kivu, firmata il 19 luglio a Doha, capitale del Qatar, tra il governo della Repubblica Democratica del Congo e i rappresentanti del gruppo paramilitare M23, che controlla varie zone dell'Est del Paese, tra cui i due capoluoghi di provincia, Goma e Bukavu, e del suo braccio politico, l’Afc (Alleanza del Fiume Congo), pone degli step chiari, con scadenze ravvicinate.
Innanzitutto, entro il 29 luglio, dovranno essere attuate le disposizioni previste, ovvero il «cessate il fuoco permanente, che comprende il divieto di attacchi di qualsiasi tipo, di diffusione di propaganda d'odio e di incitamento alla violenza e di qualsiasi tentativo di conquistare o modificare posizioni con la forza sul terreno». Importante il richiamo al divieto di «propaganda» che ha giocato un ruolo importante in un territorio dove il 70% dei giovani ha un accesso limitato all'istruzione. Incapaci di decodificare la disinformazione che alimenta l'odio inter-etnico, vengono facilmente reclutati dalle varie milizie.
A seguire, «entro l'8 agosto», dovranno essere avviati negoziati formali per un accordo di pace globale da firmare, sempre a Doha, il 17 agosto. L'accordo di Doha arriva a due settimane circa da quello provvisorio per la «cessazione delle ostilità» firmato a Washington dai ministri degli Esteri di Ruanda (il Paese – come evidenziato da alcuni Rapporti Onu – da anni sostiene economicamente e militarmente l'M23, ma il governo ruandese ha sempre negato) e Repubblica Democratica del Congo (il definitivo sarà firmato prossimamente dai rispettivi presidenti, secondo quanto dichiarato dal presidente Trump), con la «benedizione» dell'amministrazione Trump, rappresentata dal segretario di Stato, Marco Rubio.
E, ci mancherebbe, l'America ne esce con un «premio per la mediazione assai interessante»: lo sfruttamento delle risorse minerarie congolesi. Tale accordo non è proprio piaciuto al cardinale Fridolin Ambongo Besungu, arcivescovo metropolita di Kinshasa e presidente del Simposio delle Conferenze Episcopali d'Africa e Madagascar (SECAM). Il 10 luglio nell'ambito di una conferenza stampa in Vaticano, l'aveva definito una «falsa soluzione» al conflitto, che non metterà fine alle violenze, perché siglato nella totale assenza di consultazione delle popolazioni direttamente colpite. Una «pace» che serve solo agli interessi americani. Tanto meno è piaciuto all'M23 che a Washington non è stato invitato, e pertanto ha dichiarato che «Qualsiasi accordo che ci riguarda e che è stato siglato senza di noi, è contro di noi».
In realtà, quanto stabilito a Washington non prevede il ritorno a casa dell'M23 che resta nell'ambiguità perché anche se sostenuto dal Ruanda, gode di una grande autonomia; si limita a citare la Risoluzione Onu 2773 che invece chiede tale rientro. L'intesa prevede invece il rientro nei propri confini delle truppe ruandesi ai fini del rispetto della sovranità territoriale congolese, la neutralizzazione da parte di Kinshasa delle Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda e delle altre varie milizie, il ritorno di profughi e sfollati. Guardano in maniera positiva a questo «significativo passo avanti» verso la stabilità e la sicurezza, l'Unione Africana, l'Unione Europea e la Monusco, la missione Onu per il mantenimento della pace nel Paese.
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