Opinioni

Pizzaballa e la Chiesa a Gaza, attori di de-escalation morale

Nella sua omelia a Gaza, il Patriarca ha lanciato un monito che trascende il dato confessionale, introducendo una categoria pre-politica: la resilienza del bene
Il cardinale Pierbattista Pizzaballa - Foto Epa/Atef Safadi © www.giornaledibrescia.it
Il cardinale Pierbattista Pizzaballa - Foto Epa/Atef Safadi © www.giornaledibrescia.it
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Nel maggio del 1917, nelle stanze del Palazzo Apostolico, si consumò un incontro destinato a segnare la grammatica diplomatica del XX secolo: il cardinale Pietro Gasparri, architetto della politica estera di Benedetto XV, ricevette Nahum Sokolow, il diplomatico inviato dall’Organizzazione Sionista Mondiale per sondare gli umori della Chiesa. In quel colloquio, Gasparri pronunciò le parole che ancora oggi rappresentano il fulcro della dottrina vaticana: «È molto difficile per noi ammettere che gli ebrei diventino i padroni della Palestina». Non era una dichiarazione di ostilità confessionale, ma l’esordio di una complessa dottrina geopolitica: la difesa dell’universalità dei Luoghi Santi contro ogni forma di esclusivismo nazionale.

Quarantacinque anni dopo quel colloquio, nel gennaio del 1964, Paolo VI compì il primo storico pellegrinaggio di un pontefice in Terra Santa, rendendo plastica quella dottrina. Fu un viaggio di silenzi eloquenti. Attraversando la Porta di Mandelbaum in una Gerusalemme ferocemente divisa, il Papa ebbe cura di non pronunciare mai il toponimo «Israele» nelle allocuzioni pubbliche, preferendo il termine biblico e geografico di Terra Santa.

Incontrando il presidente Shazar, il Pontefice lo salutò come un’autorità territoriale ma non come il capo di uno Stato ufficialmente riconosciuto (status che sarebbe giunto solo nel 1993), mantenendo quella distanza diplomatica che sanciva il passaggio dalla «difesa dei privilegi» alla diplomazia della «presenza», gettando le basi per il ruolo di mediatore universale che la Chiesa rivendica.

Oggi, quella millenaria prudenza vaticana ha trovato una nuova, plastica rappresentazione nel cardinale Pizzaballa. Entrando a Gaza per celebrare la Messa di Natale tra le macerie della parrocchia della Sacra Famiglia, il Patriarca non ha solo compiuto un gesto pastorale; ha aggiornato la «diplomazia della presenza» della Santa Sede, spostando il baricentro dal controllo dei «sassi sacri» (le pietre dei santuari) alla protezione delle «pietre vive», ovvero la comunità umana.

L’omelia di Pizzaballa a Gaza è un documento che merita una lettura esegetica. Laddove le cancellerie occidentali faticano a trovare un equilibrio tra il diritto alla difesa di Israele e il diritto all’esistenza della Palestina, il cardinale ha lanciato un monito che trascende il dato confessionale, introducendo una categoria pre-politica: la resilienza del bene. Affermando che non dobbiamo permettere all’odio di infiltrarsi nei nostri cuori. Se vogliamo rimanere una luce, dobbiamo mettere i nostri cuori a disposizione solo di Gesù, Pizzaballa ha implicitamente criticato tanto il nichilismo di Hamas quanto la sproporzione della risposta militare israeliana. Un richiamo che è un tentativo deliberato di disinnescare la radicalizzazione religiosa, il principale ostacolo a qualsiasi architettura di sicurezza regionale.

Un momento della messa a Gaza - Foto Epa/Mohammed Saber © www.giornaledibrescia.it
Un momento della messa a Gaza - Foto Epa/Mohammed Saber © www.giornaledibrescia.it

La Santa Sede agisce qui come un attore di de-escalation morale, l’unico capace di parlare al cuore del conflitto senza essere parte del gioco delle armi. Le relazioni tra Roma e Gerusalemme attraversano una delle fasi più critiche dal 1993. Pur condannando senza ambiguità le atrocità del 7 ottobre, la Sede pontificia ha assunto una linea di critica verso la conduzione delle operazioni militari a Gaza. La tensione non è solo politica, ma teologica: il dialogo post-conciliare aperto da Nostra Aetate è messo alla prova dalla percezione israeliana di un’eccessiva equidistanza vaticana, che il Governo Netanyahu interpreta talvolta come un’indifferenza verso la minaccia esistenziale allo Stato ebraico. Da qui deriva la tensione strutturale con Israele: Roma mantiene una linea prudente su Gerusalemme e sui territori contesi, perché la questione non è solo geopolitica, è teologico-giuridica e identitaria, con la possibilità stessa di un accesso non discriminatorio alle radici del cristianesimo.

La «politica del luogo», per il Vaticano viene prima della «politica del potere». Sul fronte palestinese, la Chiesa rimane l’ultimo grande sostenitore istituzionale della soluzione, sempre più difficile da realizzare nel concreto dei due Stati, in un momento in cui la comunità internazionale sembra averne smarrito la bussola operativa. A distanza di oltre un secolo dall’incontro del 1917, la profezia del cardinale Gasparri sembra risuonare a Gaza con una lucidità quasi tragica. Se allora ammoniva contro il desiderio di farsi padroni della terra, il cardinale Pizzaballa oggi ci ricorda che la vera signoria sui Luoghi Santi non si esercita con le armi, ma con la custodia dell’altro.

Il cammino della Santa Sede, iniziato col silenzio di Paolo VI e proseguito con il coraggio del Patriarca tra le macerie, suggerisce che la pace sarà il risultato della fine di ogni pretesa di dominio assoluto. In quella Messa di Natale, tra le «pietre vive» di una parrocchia ferita, si è ribadito che la terra è santa solo quando smette di essere un trofeo e torna a essere uno spazio di incontro. Solo allora la grammatica diplomatica del XX secolo potrà finalmente lasciare il posto a una sintassi di speranza per il XXI secolo.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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