Campo largo assente in politica estera

La visione comune manca tra alleati ma anche nello stesso Pd
Giuseppe Conte - Ansa © www.giornaledibrescia.it
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La politica estera è una questione importante. In Paesi differenti dall’Italia si rivela semplicemente dirimente: fa saltare le alleanze fra i partiti, e cadere i governi. Da noi, invece, come spesso accade si indossa il «velo di ignoranza» (per dirla con la formula del grande filosofo politico John Rawls) e, per essere più prosaici, «si fa finta di niente». E, dunque, chissà se esiste ancora un luogo della politica etichettabile come «campo largo», ma di sicuro la politica internazionale è stata meno decisiva nella sua dissoluzione in atto di questi giorni – o, almeno, in quella che sembra tale – delle questioni interne e dei posizionamenti elettorali. E, soprattutto, dell’attivismo a tutto campo di Giuseppe Conte, ritornato al centro delle cronache recenti con un certo successo mediatico.

Al punto che verrebbe da sostenere che il contismo costituisce, sotto vari aspetti, la versione postmoderna del craxismo. Certo, in questa fase l’ex premier si trova alle prese con la sfida finale per la leadership contro Beppe Grillo, e per puntellare il suo ruolo deve necessariamente portare a casa dei risultati, rafforzando l’influenza (e il potere di veto e interdizione, come contro Matteo Renzi) del M5S.

In ogni caso, però, esattamente come Craxi, il «CamaleConte» gioca su tutti i tavoli, e fa la politica dei due forni. Svicola o ha attaccato direttamente ogni volta l’idea di un campo progressista unitario, così come Craxi rigettava il frontismo con il Pci, e faceva alleanze locali a corrente alternata. Analogamente al craxismo, il contismo punta massicciamente sulla comunicazione e la personalizzazione. Una politica corsara con l’obiettivo di pesare e orientare di più della forza numerica ed effettiva di cui dispone, dato che aveva perso la leadership del «campo largo» con Elly Schlein; e sempre in maniera similare a Craxi, l’ex premier punta a crescere in maniera incrementale, poco per volta, anche se per lui il tema vero appare piuttosto quello di frenare e decelerare l’erosione dei consensi. E adesso rompere l’alleanza gli dovrebbe fornire l’impulso per stravincere lo pseudo-congresso interno (la cosiddetta Assemblea costituente), perché primum vivere, e al bando qualunque spirito coalizionale (e di responsabilità…).

In questi giorni Romano Prodi – il solo leader del centrosinistra vittorioso nelle urne – ha ricordato a più riprese un nodo non precisamente secondario: ovvero che non esiste una coalizione se non si decide preventivamente cosa fare e dove andare. È forse troppo? Guardando la traiettoria del campo largo, in effetti, pare proprio di sì, mentre dovrebbe rappresentare l’abc del fare politica. Conte sospetta che il Pd abbia stretto i rapporti con Italia viva – una visione ai limiti del complottismo – e, per contro, mostra di voler egemonizzare i settori maggiormente di sinistra, come Avs, con la quale possiede molti punti di contatto, compresa la politica internazionale. Su cui dentro il Pd esistono più linee, come ha mostrato anche il recente voto all’Europarlamento sulla rimozione delle restrizioni all’uso dei sistemi d’arma occidentali da parte dell’Ucraina.

L’equilibrismo e il funambolismo della segretaria in materia rasentano così la tattica dell’opossum, come l’ha definita Paolo Mieli, quella del «fingersi morto» e non dare nell’occhio affinché «passi la nottata» e si superino i momenti (e le votazioni) a maggiore rischio di fibrillazioni. E non è chiaramente in questo modo che si recupera davvero competitività di fronte al destracentro, anche se continua l’operazione di reciproca legittimazione fra le leader di FdI e Pd. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha, infatti, sentito al telefono Schlein (e nessun altro capo partito di opposizione) a proposito della crisi mediorientale.

Nella fattispecie, del resto, i loro orientamenti in politica internazionale su Israele, l’Iran e suoi fiancheggiatori non differiscono particolarmente. Così, quando la crisi è grave, l’importanza della politica estera tenuta fuori dalla porta dei partiti nazionali, rientra dalla finestra delle «relazioni istituzionali».

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