BlackRock e Meta: clima, fact-checking e politica del profitto

Negli ultimi giorni due notizie hanno raccolto commenti analoghi pur essendo riferite ad, apparenti, contesti diversi. La più recente riguarda la decisione del più grande gestore patrimoniale globale BlackRock, noto anche per avere interessi vari nel mondo del calcio (dall’azionariato nel Manchester United alla sottoscrizione di bond che finanziano l’Inter in Italia), di uscire dall’alleanza, nata nel 2021, con altri importanti fondi internazionali, per sostenere (finanziariamente) la salvaguardia del clima. La precedente notizia, invece, riguarda la decisione presa da Zuckerberg per i suoi social di eliminare le attività di fact-checking.
Le due notizie pur non essendo teoricamente collegate tra di loro sono state lette, in prima battuta, come l’adeguamento del fondo e dei social Meta al nuovo clima che si sta imponendo con la vittoria di Trump. Vittoria che genera il, conseguente, consolidamento al potere dei partiti iper liberisti e populisti che spingono per togliere freni allo sviluppo e alla crescita economica (come quelli che impongono attenzioni alla sostenibilità) e alla circolazione delle notizie (in questo caso evocando la visione che vuole che la circolazione libera delle informazioni rappresenti di per se stessa la fonte in grado di distinguere il vero dal falso).
Questa prima interpretazione non sorprende, nel nostro Paese il concetto di «voltagabbana» è molto radicato e persino celebrato fin dai tempi di Dante (Canti XXXII e XXXIV dell’inferno), quindi l’adeguarsi al vento del cambiamento politico ha una sua «ragion d’essere». Vale la pena, però, di non fermarci solo a questa giustificazione per spiegare le due decisioni in oggetto. Una più convincente valutazione riguarda la sfera economica che ha spinto a queste prese di posizione.
I fondi che 4 anni fa hanno sottoscritto l’alleanza, sono stati coinvolti, con sistematicità, in costosissime cause avviate da imprese che si sono ritenute discriminate dall’essere state escluse dall’accesso a fondi perché «non adeguatamente attive sul fronte della sostenibilità». Questa carenza di fondi ha, secondo i ricorrenti, limitato la loro capacità di operare sul mercato riducendone le basi competitive. In modo analogo Facebook (ad esempio) ha perso milioni di incassi vedendosi surclassare da altri social che hanno sviluppato «like» dando libera circolazione a fake news. Con l’avanzare di politici contrari a questi limiti il pericolo, per entrambe le istituzioni, è di peggiorare la propria capacità di reddito (oltre che, nel caso dei fondi, di dovere aumentare la dotazione di risorse per gestire le cause). Il legame tra i due fatti però è ben più forte di quanto descritto.
È, infatti, proprio partendo dalla circolazione delle informazioni che la politica ha finito con dare più credito a chi sostiene gli effetti negativi delle norme a salvaguardia dell’ambiente, piuttosto che a chi riporta dati sulla devastazione climatica o sui suoi effetti (ora e futuri). Il fatto che i dati sugli effetti negativi che le economie subiscono da norme sulla salvaguardia del clima siano oggettivamente dimostrabili (ad esempio il maggior costo delle auto che determina la riduzione del loro mercato e, di conseguenza il crollo degli occupati), rende «oggettivamente» difendibile la posizione di chi vuole allentare le norme. Allo stesso tempo, però, cosa determina la minore efficacia di analoghe informazioni «oggettivamente dimostrabili» sulla deforestazione, sull’aumento della temperatura del pianeta, sullo scioglimento dei ghiacci, piuttosto che sull’incremento delle patologie respiratorie «croniche» dei nostri bambini?

Innanzitutto il fatto che «gli algoritmi» che regolano la diffusione delle informazioni (prima sui social e poi indirettamente sui media) finiscono con il «premiare» più le prime notizie delle seconde (anche perché meglio sostenute da chi gli algoritmi li sa manipolare), ma anche per il fatto che, per un verso, le notizie che spiegano come investendo oggi sul fronte della sostenibilità (con intelligenza e senza radicalismi) si avviino processi di innovazione vera e duratura (come possono spiegare molti importanti imprenditori della nostra provincia) non vengono altrettanto sostenute (e fanno meno «notizia» quindi «like»). Ma anche perché si finiscono con l’annacquare molte delle notizie sugli effetti della variazione climatica (riducendone l’informazione o diffondendo liberamente fake news che dichiarano il contrario).
Che si debba lavorare per evitare approcci radicali anche al tema della salvaguardia del clima è palese, ma che per farlo si debba passare per l’affermarsi di politiche radicalmente avverse al porre attenzione a questo tema è rischioso (anche ai fini dell’innovazione oltre che del pianeta). Capirlo anche dando maggiore spazio ad informazioni che ci aiutino a comprendere il rischio che stiamo correndo è fondamentale.
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