Opinioni

Galà dei Bilanci, Nesi: «Lottate contro l’ideologia irrazionale»

di Edoardo Nesi
Il testo integrale del monologo dello scrittore toscano, vincitore del Premio Strega con «Storia della mia gente», durante la serata di presentazione dell’inserto Bilanci Brescia
Lo scrittore Edoardo Nesi sul palco del Grande - Foto New Reporter Favretto © www.giornaledibrescia.it
Lo scrittore Edoardo Nesi sul palco del Grande - Foto New Reporter Favretto © www.giornaledibrescia.it
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Di seguito il testo integrale dell’intervento di Edoardo Nesi, scrittore vincitore del Premio Strega nel 2011 con «Storia della mia gente», protagonista del monologo sul palco del Teatro Grande nella serata di presentazione dell’inserto Bilanci Brescia 2023.

Mio padre mi insegnò che il cuore pulsante dell’Italia, il suo fulcro e il suo centro, gran parte della sua stessa ragion d’essere, è qui. Qui dove si lavora, dove si crea il benessere, dove c’è l’industria. Vengo dall’industria anch’io. Piccola industria, certo. Piccolissima, in confronto alle vostre. Si aveva un lanificio a Prato, si faceva i tessuti. Mio nonno l’aveva fondata prima della guerra, mio padre l’aveva resa un’azienda di successo – per gli standard pratesi, sia chiaro, il massimo fatturato che si fece fu 35 miliardi –, e io nel 2004 l’ho venduta, a tre lire. L’ho dovuta vendere.

La manifattura dimenticata

Chi ha letto i miei libri conosce bene questa storia, chi non li ha letti dovrebbe leggerli. Non tanto perché la mia storia sia speciale. Anzi, proprio perché non lo è. Perché è simile, se non uguale, a quelle di tanti imprenditori di quella manifattura di cui l’Italia prima si faceva vanto e ora è del tutto dimenticata, quella che di recente ho sentito definire povera, ma povera non era davvero, io vendevo tessuti bellissimi agli stilisti migliori del mondo, cashmere, angora, alpaca, mohair, il lino irlandese, il cotone mako, il loden, perché s’era specialisti del loden, noi, altro che i tirolesi.

Era una manifattura antica, però, purtroppo priva o quasi di contenuto tecnologico, non digitalizzabile. Una manifattura delocalizzabile, per intenderci. Quella che possono fare – e fanno – anche i cinesi. Di peggior qualità, certo, come sempre, ma a un prezzo imbattibile.

Nel ‘95 avemmo il nostro anno migliore, grazie alla forza prodigiosa del mercato tedesco e alle sante svalutazioni della lira. A vederla oggi si può dire che fu la consacrazione, l’apoteosi di quarant’anni di crescita non solo nostra, ma di tutta la città e di tante città manifatturiere in giro per l’Italia. Un successo epocale che portava un benessere che non si concentrava solo nelle mani di pochi, ma veniva distribuito, condiviso.

Sapete bene di cosa parlo. Anche a quei tempi, eravate protagonisti di tutto questo.

Era uno stato di grazia, ora lo sappiamo. L’ambiente ideale perché si realizzi il sogno morale del capitalismo, quello per cui chi merita, anche se vien dal nulla e parte da essere operaio, col lavoro e con l’impegno può diventare imprenditore e farsi artefice del proprio destino. Non era fantastico? Molti di noi, molti di voi son nati così.

Nessuno pensava si trattasse d’un ciclo economico favorevole. Non durano quarant’anni, i cicli economici favorevoli.

Pensavamo fosse la vita.

Invece, no. Da lì, più o meno, avviò la frenata, e fu una frenata brusca. Nella formula uno e nella moto Gp ogni tanto si vede una pubblicità impressionante della Brembo, appunto, quella che fa vedere che in pochi secondi Verstappen o Bagnaia passano da 330 a 80 all’ora per fare la curva. Ecco. A noi successe questo. Si frenò e si frenò e si frenò, ma poi non si riusciì nemmeno a fare la curva, e si andò fuori strada. Neanche dieci anni dopo il nostro anno migliore dovetti vendere l’azienda, a due lire.

Perché?

La globalizzazione

Sul palco del Teatro Grande Edoardo Nesi, vincitore del Premio Strega con «Storia della mia gente» - Foto New Reporter Nicoli © www.giornaledibrescia.it
Sul palco del Teatro Grande Edoardo Nesi, vincitore del Premio Strega con «Storia della mia gente» - Foto New Reporter Nicoli © www.giornaledibrescia.it

Per l’imporsi incontrastato di un’idea proveniente dalle stanze chiuse d’un potere lontano. Più che un’idea, un’ideologia fanatica che ci venne raccontata camuffata da razionalità, progresso, persino compassione. La globalizzazione. La liberalizzazione totale del commercio mondiale. L’apertura delle dogane.

Un messaggio positivo, sembrava. Liberale. C’era il coro. C’era il dogma. Con la globalizzazione ci avremmo guadagnato tutti. Non c’eran dubbi. Chi non lo capiva era un luddista. Ve li ricordate i luddisti? Io li studiai a scuola. Eran tessitori come me e mio padre e mio nonno. Distruggevano i telai meccanici perché volevano continuare a tessere a mano. Fanatici, certo, ma simpatici, no? Il re d’Inghilterra si arrabbiò molto, però, e un bel po’ ne giustiziò, gli altri li mise sulle navi e li mandò in Australia.

Ecco, ci davano di luddisti, gli economisti, e gli facevano eco i politici ciuchi e ignoranti d’ogni parte. Avremmo sì importato tanto dalla Cina, ma anche venduto loro i nostri prodotti migliori, l’eccellenza, il Made in Italy. C’era un miliardo di cinesi che stavano per diventare borghesi e non vedevano l’ora di comprare le cose che producevamo noi. Prima le Ferrari e le Tod’s e le giacche di Armani, certo, ma poi tutto il resto. Anche i tessuti.

Ora fa ridere, questa cosa. Questa sequela di ingenuità, di malafede, di previsioni ridicolmente sbagliate. O meglio, fa piangere perché io ho avuto amici che non hanno retto a vedersi fallire, e si son suicidati nei loro capannoni vuoti, disperati, la domenica mattina.

Ora che abbiamo assistito alle conseguenze dell’aver abbracciato quell’ideologia fanatica – e cioè la distruzione di buona parte del tessuto industriale del paese – bisogna ricordare che la globalizzazione divenne legge universale basandosi proprio su questa promessa ridicola e ideologica e falsa. Quella che ci avremmo guadagnato tutti. Non era vero. Qualcuno ci guadagnò, io e la mia gente ci perdemmo. A bocca di barile, ci perdemmo. I cinesi fecero due più due, e capirono che invece di comprare il Made in Italy era meglio produrlo. Copiarlo, anzi scimmiottarlo. Sconfiggerlo. Cancellarlo.

Sono ancora arrabbiato. Forse si sente. A fare il testimone del declino e della caduta dell’impresa italiana ci sto male.

L’industria taciuta

E poi a farlo qui, dove c’è un altro tipo di manifattura italiana, una che superò di slancio gli anni del nostro fallimento. Quella ricca. Quella che continuava a crescere perché tecnologica, avanzata, inimitabile, digitalizzata e digitalizzabile. Quella impossibile da delocalizzare. La vostra.

Oggi però entra in difficoltà quel mondo dell’automobile che in parte stasera rappresentate. Quel mondo in cui ognuno costruisce un pezzetto d’eccellenza di una automobile. Oppure costruisce le macchine per costruire utensili e altre macchine che costruiscono pezzetti d’eccellenza per le automobili. O l’acciaio per costruire le macchine che costruiscono i pezzetti d’eccellenza per le automobili e gli utensili e le macchine che le costruiscono.

Un sistema. Un universo che, pur ancora finanziariamente solidissimo – siamo a Brescia, del resto – oggi rischia di andare in crisi per l’affermarsi di un’altra ideologia irrazionale e insensata, populista, antiscientifica e però potentissima, oggi come ieri spinta da un coro assordante e onnipresente, ritenuta indubitabile come fosse la verità rivelata, e dunque subito abbracciata e votata dai politici ciuchi e ignoranti.

Un’ideologia che ignora l’industria e le condizioni in cui può prosperare, che non sa come funzionino o cosa siano davvero, le automobili, quale funzione svolgano nella società, quale benedetto senso di libertà possano ingenerare e trasferire nelle nostre povere vite spaurite.

Un’ideologia che dice di guardare al futuro ma è cieca ai bisogni del presente. Che non si cura delle conseguenze. Che crede sia facile o possibile riconvertire un’intera industria. Facevate i motori a otto cilindri? Bene, bravi, ora farete le batterie, e tutto a posto.

Questo vi dicono, in sostanza. Lo dicevano anche a noi.

L’ho già sentite mille volte, queste storie, e per me son come frustate sulla pelle. Sono venuto a dirvi che non voglio vedere cadere voi com’è caduta Prato. Per mano degli stessi, più o meno, che hanno fatto cadere Prato.

Mi rendo conto che queste mie parole potranno apparire esagerate, di retroguardia, insopportabilmente pessimiste. A noi certo non succederà! Cosa vuole questo luddista, mandiamolo in Australia! Però io la conosco l’industria italiana. E la amo. Sì, la amo. So chi sono gli industriali, come son fatti, cosa pensano.

E son diversi dagli altri industriali del mondo.

Le nostre grandi storie di successo sono sempre inseparabili dalla bellezza, dal gusto, dalla eccellenza costruttiva. Nel vostro caso dall’esattezza dalla meccanica di precisione che sa diventare raffinatezza, invenzione, persino magia. Ogni tecnologia veramente avanzata è indistinguibile dalla magia, diceva Arthur Clarke.

Ah, non c’è mai stata un’industria così, figlia dell’artigianato e da esso innervata, in cui la tecnologia si sposa sempre o quasi col design, la convenienza d’uso con la bellezza, e i suoi prodotti vanno a invadere la vita delle persone, e non solo quella dei ricchi, anche quella di chi ha poco.

Pensate, negli anni Settanta gli operai più poveri della mia azienda, quelli che non potevano permettersi la 500, venivano a lavorare in Vespa. Ecco, oggi la 500 e la Vespa sono al Museo d’arte Moderna di New York, esposte e riconosciute come opere d’arte. Eppure erano il mezzo di trasporto degli operai. Non è un miracolo che centinaia di migliaia di operai ogni mattina salissero su un’opera d’arte per andare a lavorare in fabbrica?

Ai tempi di mio padre, poi, i ragionieri della nostra azienda battevano le fatture e le conferme d’ordine su una Olivetti lettera 22. Che è esposta al MOMA anche lei. Anche i ragionieri, dunque, incredibile a dirsi, lavoravano nell’arte.

E gli abiti degli stilisti italiani di quei tempi oggi sono esposti nei musei, e dunque anch’essi opere d’arte, ma nessuno dice mai che quei tessuti si facevano noi, a Prato.

Da questa eccellenza sublime, veniamo tutti.

Ma non l’abbiamo mai raccontato.

Eccolo, il problema. Il difetto. Non abbiamo parlato abbastanza. Non abbiamo mai raccontato la nostra meravigliosa storia di eccellenza industriale. Anzi.

La grande letteratura e il grande cinema hanno sempre diffidato degli imprenditori, raffigurandoli come dei manigoldi, dei poco di buono, degli sfruttatori, dei ladri, degli evasori, degli approfittatori degli operai. La storia dell’industria italiana è sempre stata trascurata, misconosciuta, come se fosse e fosse sempre stata solo un male.

Vi ricordate la Dolce Vita? Marcello Mastroianni si aggira meraviglioso nel centro di Roma, va alla Fontana di Trevi. Ma come se ne allontana, Roma diventa un reticolo di strade appena asfaltate in mezzo a campacci infiniti, di innumerevoli palazzi in costruzione, quelli che la crescita ribollente e anzi magmatica di quegli anni rese necessari. Fellini li riprende, li fotografa, li mostra. Ma non ne parla. Non racconta la storia di una società in espansione, di un benessere nuovissimo e distribuito e dunque provvidenziale. Non spiega come e perché quei palazzi vengono costruiti, chi li costruisce, chi li abiterà. Non racconta, insomma, la storia dell’immensa e nuova prosperità che investe l’Italia in quegli anni. Non racconta degli operai che arrivano dal sud senza una scarpa e pian piano, col lavoro, avviano a comprarsi le lavatrici, le lavastoviglie, le automobili.
Non raccontano, lui e gli altri grandissimi registi e scrittori di quegli anni, la vera storia dell’Italia. Come si è fatto a sconfiggere la povertà con il lavoro per tutti. Come si è fatto a diventare un paese ricco. E questo è male, perché è il nostro unico vero patrimonio. È la storia che sta sopra tutte le storie. È la mia storia e la storia della mia gente, appunto, come diceva Scott Fitzgerald. E anche la vostra. Raccontatela. Raccontate chi siete.

«Raccontatevi»

Se non lo fate, la vostra storia sbiadirà nel ricordo, diventerà un fruscio, un rumore di fondo, mentre invece è un canto lirico, una sinfonia come quelle che eseguiva al piano il grande maestro Arturo Benedetti Michelangeli.

Chi sarete, senza la vostra storia? Diceva Steinbeck: Come facciamo a vivere senza le nostre vite? Come sapremo di essere noi senza il nostro passato?

In un mondo ignorante e dimentico, non raccontarsi è un peccato imperdonabile. In questo mondo in cui l’attenzione dura dieci secondi e la comunicazione si fa martellando ogni giorno la gente sui telefonini, non vale essere ed essere stati il meglio, per farsi forza. Per combattere i messaggi che tutti i giorni vi aggrediscono e vi sviliscono dovete parlare, raccontare chi siete. Spiegate le vostre ragioni. Fatevi sentire. Fatene uno alla settimana, di convegni così. Andate in televisione. Sui social. Ovunque.

Fateli ragionare, i politici. Perché è da loro che passa tutto, purtroppo. Spiegate le vostre ragioni, ogni giorno, senza stancarvi mai di ripetere le stesse cose. Raccontate cosa rappresentate, e perché è sbagliato far passare leggi assurde che rischiano di far chiudere le vostre aziende e togliere il lavoro a centinaia di migliaia di persone.

Combattete contro le ideologie ciuche con le loro stesse armi. Ricordate, non state lottando contro la concorrenza, ma contro un’idea. Non basta la vostra eccellenza. Dovete raccontare le vostre ragioni tutti i giorni, e comunicarle ovunque. Fatelo, ve ne prego, anche se vi pare un’impresa estranea al vostro modo di essere, se non c’entra nulla con l’etica silenziosa e onesta del vostro lavoro, con l’impegno giornaliero, con l’onestà e la fede certosina nell’innovazione, con la continua, inesausta ricerca del progresso tecnologico.

Fatelo, o rischiate di capitolare come siamo capitolati a Prato, dove l’industria tessile, praticamente, non c’è più.

Ecco, son venuto a dirvi questo. Lottate. E vincete, almeno voi.

Vi abbraccio tutti. Ma forte, vi abbraccio.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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