Andare oltre i limiti della sofferenza

La strage di Paderno Dugnano ci ha colpiti tutti. Nel profondo. La normalità di una famiglia come tante, come le nostre, la tragedia di un giovane che afferra il coltello e uccide, l’inquietudine del suo sembrare del tutto tranquillo e normale sono segnali che scuotono le nostre coscienze e sollevano le nostre paure. Ci guardiamo dentro, scrutiamo noi stessi e le nostre famiglie e ci spaventiamo.
Perché se è successo a loro, a una famiglia normale, allora può succedere a tutti, anche a noi. Nessuno giudichi, per carità. Ma tutti hanno il diritto, e nella dialettica che è esplosa dalla strage di qualche giorno fa, forse anche il dovere di riflettere e dialogare. Si sono versati quindi naturalmente fiumi di inchiostro. Punti di vista: talora di condanna, talora di comprensione.
Ma c’è un denominatore comune in tutti gli osservatori: la constatazione di una grande sofferenza nel cuore del diciassettenne che ha afferrato il coltello. Una sofferenza insopportabile e, ad un certo punto, forse incontenibile. Ma, una volta preso atto del dolore che ardeva cupo nel cuore del giovane ci si è sbizzarriti nel puntare il dito. E sul patibolo è finita la famiglia. Non tanto quella trucidata, quanto piuttosto la famiglia come sede di un’educazione non adeguata. Genitori assenti, per lavoro o per immaturità. Giovani abbandonati all’educazione dei social. Errori nella comunicazione padre o madre figlio. Insomma: un disastro.
Non possiamo dire che sia una visione corretta e reale. E nemmeno equa: essere genitori oggi, divisi tra lavori impegnativi e che permettono a mala pena di arrivare a fine mese e figli che hanno la naturale pretesa di attenzione è molto difficile. Competere con l’insegnamento che il mondo del web, vasto quanto sconosciuto, propone ai nostri figli è impresa quasi proibitiva. Anche perché le parole dei genitori, gli adolescenti, spesso le detestano. Ma non è questo il punto.
Torniamo all’educazione. Perché nella rosa di argomenti di formazione dei nostri figli sembra mancarne uno, clamorosamente: l’educazione alla sofferenza. Non c’è. La neghiamo, con amore ovviamente. La evitiamo, anche senza accorgercene. I nostri figli, piccoli, giocano a calcio per esempio? Non si contano i gol, non si contano i punti in classifica. Perché l’importante è solo divertirsi. Vero, è essenziale che si divertano. Ma così gli neghiamo una parte di verità, quella che li potrebbe far soffrire, quella del fallimento, quella dell’errore. Se perdi una partita non fa nulla. Ma intanto una piccola lezione di vita se ne va.
Così anche a scuola: guai a bocciare. Guai a qualche professore severo. Non si permetta. Comprensione, accoglienza, amore. Tutto bello, ma sicuri che la vita sia sempre così? O forse, anche a scuola, qualche scontro o qualche umiliazione – senza esagerare – possono forgiare un carattere più forte?
Per non dire dei diritti. Si parla dei diritti, sempre, ed è un argomento spesso sacrosanto. Ma ci si dimentica sempre, sempre, dei doveri. Di quell’altra metà del cielo che è molto meno affascinante dei diritti. Quella parte che ci scomoda, che non ci accontenta e magari invece ci fa soffrire un po’. Eccola, di nuovo, la sofferenza, quel mostro che nascondiamo sempre agli occhi dei nostri figli, ma che c’è. E prima o poi si mostra, e se sono impreparati sono dolori.
Cosa fare? In questi giorni abbiamo un luminoso esperimento educativo: le paralimpiadi, una manifestazione che andrebbe insegnata a scuola. Giovani senza braccia che giocano a ping pong, non vedenti che corrono e saltano, ragazzi e ragazze senza gambe o braccia che nuotano.
Tutti sorridenti, stanchi, fieri. Tutti vessilli di un grande insegnamento: la sofferenza può essere un muro invalicabile, ma può anche essere un’occasione per diventare migliori, molto migliori. Siamo sinceri con i nostri ragazzi. Non illudiamoli. La sofferenza esiste. Sta scritto che «gli anni sono settanta, ottanta per i più robusti, ma quasi tutti sono afflizione e dolore». È così, purtroppo. Non possiamo raccontare favole.
O meglio, lo possiamo fare, perché qualcuno è in grado di scriverle anche nella sofferenza. Come il nostro concittadino Federico Bicelli. Costretto su una sedia a rotelle ha sofferto, di sicuro. Ma non si è limitato a maledire la sua croce. Lui l’ha cavalcata, l’ha capita, l’ha superata. È diventato il migliore di tutti. E in questi giorni tornerà nella nostra città con un cerchio d’oro attorno al cuore. Quel cuore che non si è spaventato, ma ha saputo saltare oltre l’ostacolo che la vita gli ha scagliato addosso. Se vogliamo raccontare una favola, raccontiamo la sua.
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