Tracollo afghano e ritorno dei talebani: Usa e Ue in ritirata

La caduta di Kabul e la riconquista talebana non sono buoni segnali per l’Occidente. Il cambio di regime in Afghanistan apre una fase nuova in Asia centrale. Si annunciano nuovi equilibri nel cuore del continente eurasiatico per effetto del ritorno dei talebani, che hanno ripercorso l’ascesa vertiginosa a cui si era assistito tra il 1994 e il 1996, quando si impossessarono di un Paese martoriato dalla guerra civile.
Oggi gli eredi di quei talebani hanno ripreso il controllo al termine di vent’anni di occupazione occidentale e deponendo un governo inesistente che si è dissolto nel momento in cui Usa e Nato hanno ritirato le truppe. Il compito del figlio del mullah Omar e degli altri capi talebani è più semplice dei loro predecessori visto che una struttura statuale esiste. Certo ora cambieranno la bandiera, scriveranno una nuova costituzione, reimporanno la sharia e, come hanno già annunciato, ricostituiranno l’Emirato islamico: addio diritti umani e diritti politici, insomma addio ai diritti come li intendiamo in Occidente.
E smettiamola di chiamarli «studenti coranici», sono combattenti jihadisti e non esperti di teologia. Nel 1996 i talebani avevano messo in piedi una sorta di Stato eremita, santuario di Al Qaeda (dando così ospitalità a Osama Bin Laden), riconosciuto da una manciata di Stati in tutto il mondo. Al tempo dovevano fronteggiare la resistenza dei signori della guerra, quei capi mujaheddin che precedentemente avevano combattuto l’Unione sovietica durante l’occupazione tra il 1979 e il 1989.
Ora tutto è diverso: i signori della guerra sono morti o sono troppi vecchi per continuare a combattere (e quindi non godono più dell’appoggio di altre potenze), dunque non esiste un fronte interno; ma soprattutto i talebani vogliono il riconoscimento a livello internazionale, dunque cercano una dimensione in politica estera che 25 anni non era contemplata: anzi l’unica proiezione esterna era il sostegno al terrorismo internazionale di marca qaedista.
Tecnicamente da domani l’Afghanistan potrebbe essere uno stato pacificato dopo un repentino cambio di regime, addirittura troppo veloce per essere traumatico per la distratta opinione pubblica internazionale più preoccupata dalla pandemia e dal Green pass per andare in vacanza o ritornare al lavoro. Ora i talebani hanno intenzione di muoversi sulla scena internazionale sotto forma di attore statuale il che è indiscutibilmente una novità.
Ora è lecito chiedersi chi ha vinto e chi ha perso in questo Grande gioco centroasiatico. La riconquista di Kabul sancisce la vittoria indiscussa del Pakistan che da sempre ha sostenuto i talebani (negli anni ’90 arrivavano per lo più da campi profughi afghani in territorio pakistana) per assicurarsi un entroterra strategico nel conflitto regionale con l’India (che invece esce sconfitta e chiederà conto agli Stati Uniti del tracollo). Vincono Cina - il ministro degli Esteri Wang Yi a Tianjin, a fine luglio, ha ricevuto la delegazione ufficiale dei talibani guidata dal mullah Baradar - e Russia che dopo la caduta di Kabul si è offerta di collaborare con il nascente governo nella fase di transizione.
A prima vista si tratta di approcci incredibili ma vanno letti controluce: Putin vede nel tracollo afghano la sconfitta della Nato e degli Stati Uniti e per batterli è disposto a fare accordi anche con regimi che appoggiano apertamente il terrorismo islamico. Biden potrà dare la colpa a Trump per il ritiro già deciso lo scorso anno, inoltre l’opinione pubblica americana è preoccupata da altro e da tempo non gradisce più un impegno militare molto dispendioso, oltre che economicamante anche in perdite umane. Resta il fatto che nella politica internazionale il prestigio conta e Biden resterà il presidente della capitolazione di Kabul (sia chiaro: i paragoni con Saigon sono fuorvianti, qui è stato tutto più veloce e con esiti potenzialmente molto più profondi a livello geopolitico). La Cina rafforza la propria alleanza con il Pakistan e spera di poter metter in sicurezza un tratto fondamentale della nuova Via della Seta (oltre che ovviamente ottenere una sconfitta per gli Usa). Per Mosca e Pechino si tratta comunque di un grosso rischio visto che il terrorismo islamico è una minaccia sia per i russi (nel Caucaso) sia per i cinesi (nello Xinjiang).
Ora veniamo agli sconfitti. Sicuramente l’Iran, che storicamente osteggia i talebani e ora deve fare i conti con un accerchiamento sunnita che si completa con un fronte a oriente: a Teheran si vive una fase molto delicata che coincide con l’inizio della presidenza Raisi. Ma i veri sconfitti sono gli Stati Uniti che dopo l’Iraq hanno perso anche in Afghanistan (la Siria è un discorso a parte). Due sconfitte cocenti, che hanno origine nel peccato originale di 20 anni fa, quando Washington decise di combattere due guerre contemporaneamente. Due sconfitte del genere per altri sarebbero state il sigillo definitivo del declino: per gli Usa sono forse solo la conferma di come la potenza egemone sia in ritirata in un mondo sempre più multipolare.
E poi c’è la sconfitta di noi europei. Inserita in una cornice molto chiara: la Merkel da fine settembre non sarà più cancelliere tedesco, Macron fra pochi mesi dovrà chiedere il voto ai francesi, Johnson ha i suoi problemi post-Brexit, Draghi deve risollevare l’Italia e fare i conti con i no Green pass invece che con i talebani. Insomma, al di là di dichiarazioni accorate (e ci mancherebbe) sul rispetto dei diritti umani, dei bambini e delle donne ora che sono tornati gli estremisti islamici a Kabul, noi europei non siamo stati in grado di muovere un dito perché occupati in altro e quindi per un oggettivo disinteresse politico, prima che strategico. Anche l’Europa è in ritirata e in questo momento non ha nessun leader in grado di condurla nel mare agitato e pericoloso della politica internazionale. Ed è un vero disastro.
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