Beirut un anno dopo l'esplosione del porto: «Libano al collasso»

«È come camminare sul ghiaccio, ogni volta che esci di casa». Francesca Volpi, fotografa freelance classe ’85, usa queste parole per descrivere il clima a Beirut, in Libano, alla vigilia del primo anniversario dell’esplosione che il 4 agosto 2020 ha devastato il porto e parte della città. «Non è cambiato niente da allora. Anzi. Il Paese è al collasso. Si fanno ore di coda sotto il sole per la benzina, non ci sono medicinali di base, l’elettricità scarseggia, la gente è in miseria e il governo inesistente». E la rabbia sale.
A un anno dall’incidente in cui morirono più di 200 persone, ne rimasero ferite più di 6.000 e oltre 300mila rimasero senza casa, il Libano continua a vivere una crisi economica, sociale e politica profondissima. Per la Banca Mondiale è una delle tre più gravi del mondo dalla metà dell’Ottocento. La lira libanese ha perso più del 90% del suo valore, il prodotto interno lordo si è ridotto del 40%. Le indagini sull’esplosione ristagnano per via dei ripetuti cambi di governo, tra corruzione e settarismo. L’ultimo è del 26 luglio, quando il presidente del Libano Michel Aoun ha chiesto a Najib Mikati, un ricco uomo d’affari, di formare un nuovo esecutivo dopo quello provvisorio durato quasi un anno con poteri limitati. «Ma il vero problema è nelle strade. La gente aspetta per ore con temperature altissime per fare benzina. C’è chi spara in aria esasperato per disperdere la folla e mi è capitato di vedere copertoni in fiamme durante le proteste. L’esplosione del porto è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso e il Libano, già da prima allo stremo, è abbandonato dalla comunità internazionale» racconta Volpi.
Il racconto in presa diretta

Nata a Brescia, una formazione in giornalismo al London College of Communication dopo il diploma al liceo Gambara, la fotografa vive a Beirut da sei mesi per documentare la situazione (tra gli altri, per Bloomberg e The Guardian), in stretta collaborazione con la onlus milanese WeWorld. Il lavoro sul Libano arriva dopo numerosi reportage di guerra dall'Ucraina, altri su temi sociali come il focus sulla comunità LGBT in Honduras, e approfondimenti su questioni climatiche e migrazioni. Durante i mesi più duri della pandemia nel 2020, le sue fotografie ai sanitari di Brescia e ai malati Covid-19 all'interno dell'ospedale Civile sono state pubblicate su Bloomberg. «Nessuno compra più carne o dolci perché costano troppo - prosegue Francesca Volpi -. Ogni palazzo, compresi ospedali e supermercati, ha il suo generatore per l’elettricità, che però per almeno tre ore al giorno non va. E non è uno scherzo, perché qui fa caldissimo e così nemmeno chi è privilegiato può accendere il condizionatore. I soldi si cambiano al mercato nero, perché l’inflazione ha raggiunto livelli spaventosi, ma gli stipendi sono rimasti gli stessi». I conti dei libanesi sono congelati e nessuno può convertire la lira in altre valute o ritirare direttamente in dollari. L'unica soluzione per evitare un cambio affossante è ottenere quelli che i locali chiamano fresh money, cioè bonifici fatti dall'estero che sono prelevabili in dollari.

Chi poteva farlo se n’è già andato, ma le ambasciate non rilasciano più visti se non per motivi di lavoro o studio. Tanto che, secondo la fotografa, l'impressione generale dei libanesi è quella di essere intrappolati nel proprio Paese, dove le condizoni sembrano peggiori di quelle della guerra civile. Mancano le medicine di base come il paracetamolo e le persone tendono a evitare di sottoporsi a interventi chirurgici perché non possono permettersi le cure poi. «Nei giorni scorsi una signora ci ha raccontato che non è andata a fare una visita medica per timore che il dottore le dicesse che doveva essere operata - dice Volpi -. Per lei era una prospettiva insostenibile: non aveva soldi per l'intervento e poi deve tenere i nipoti, e non può permetterselo». Gli stessi ospedali, secondo l’agenzia Reuters, si occupano solo di urgenze a causa della penuria di materiale. «Questa tragedia si è sommata agli effetti sia del conflitto siriano esploso nel 2011, per cui il Libano oggi conta circa 1,5 milioni di rifugiati e una popolazione di 4,2 milioni, sia alla crisi socio-economica aggravatasi con la pandemia - spiega Vincenzo Paladino, ECHO Program Manager di WeWorld -. Il settore bancario è sull’orlo del collasso, il tasso di disoccupazione è aumentato del 50% nei settori commerciali, e quello di povertà ha ormai superato il 50%». Davanti a problemi di questa portata, anche il coronavirus, dice Francesca Volpi, è diventato un problema secondario nonostante gli oltre 500mila casi da febbraio 2020.
La situazione al porto
La zona del porto dove un anno fa si sono incendiate 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio, un composto chimico dall'enorme potenziale esplosivo, che di solito viene impiegato come fertilizzante in agricoltura o come elemento necessario per formare il ghiaccio istantaneo, è ancora fatiscente. Secondo le ricostruzioni, il carico era stato conservato lì in piena negligenza statale per sette anni, da quando cioè nel 2013 la nave che lo trasportava - la Rhosus, di proprietà di un magnate russo, partita dalla Georgia e diretta in Mozambico - fu costretta a fare scalo a Beirut. La nave rimase ferma nel porto per mesi, e nel 2014 il carico della nave passò sotto il controllo delle autorità cittadine, che per motivi di sicurezza lo spostarono in un deposito del porto, in attesa di decidere come smaltirlo. «Un ente svizzero che si occupa dei rilievi mi ha detto pochi giorni fa che i silos affondano 2 millimetri al giorno, molte di più rispetto alla Torre di Pisa - dice Volpi -. Nessuno però ha ancora deciso il da farsi e le macerie sono ancora lì». Oggi è in programma una commemorazione istituzionale per ricordare le vittime, ma la città intera, racconta Volpi, si aspetta scontri per le strade. «Sono già annunciate marce verso il parlamento. Tutti prevedono un disastro».
Lo stallo delle indagini
Dopo un anno non è ancora stata fatta chiarezza sulle dinamiche dell'esplosione del porto di Beirut. In un rapporto pubblicato martedì 3 agosto, la ong Human Rights Watch ha accusato le autorità libanesi di «negligenza criminale» e chiesto l’istituzione di una commissione d’inchiesta indipendente sostenuta dall’Onu. Secondo l'organizzazione internazionale ci sono elementi che provano la responsabilità di pubblici ufficiali nell'esplosione del porto, ma il sistema politico e giudiziario libanese li proteggerebbe dal renderne conto.
L'ipotesi più accreditata a oggi è quella dell'incidente, ma le famiglie delle vittime, che oggi sfileranno in corteo, continuano a chiedere verità e giustizia. Finora le indagini sono state svolte dalle autorità libanesi, da febbraio guidate dal giovane giudice Tareq Bitar, subentrato al procuratore Fadi Sawan, che a febbraio è stato rimosso dal suo incarico su forti pressioni politiche dopo che aveva incriminato tre ex ministri. Bitar però ha insistito sulla pista aperta da Sawan e a luglio ha aperto un fascicolo contro nove personalità ai vertici delle istituzioni e dei servizi di sicurezza del Paese, indicate come presunti corresponsabili del disastro. Oltre a ex ministri e deputati, tra loro spiccano i nomi del premier uscente Hassan Diab e del capo dell'intelligence, il generale Abbas Ibrahim.
La crisi del Paese dura da anni
Per capire questo stallo però bisogna tornare indietro. L’esplosione al porto è stato infatti solo il climax di una crisi lunghissima, politico-sociale ancora prima che economica, che ha portato ora la Parigi del Medioriente (come viene soprannominata Beirut) a vivere forse il suo periodo più oscuro. Già da mesi i libanesi erano in piazza contro la corruzione, contro la crisi e per il carovita. Simbolica nel 2019 la protesta dei giovani per l’ipotesi del governo di tassare Whatsapp, che fu un estremo tentativo di aumentare le entrate nelle casse dello Stato (si stimavano introiti attorno ai 200 milioni di dollari all’anno con le tasse a tutti i servizi Voip), mentre la crisi economica aveva già iniziato a mordere.

Un vicino scomodo
La situazione interna è poi costantemente influenzata da un contesto regionale esplosivo. Innanzitutto i vicini, che sono molto ingombranti. A sud Israele ha mostrato di mal sopportare lo stato multietnico e multiconfessionale libanese, alla luce anche del ruolo indiscutibile nella politica di Beirut di Hezbollah, uno dei nemici giurati di Tel Aviv. Nel 2006, in questo periodo, era in corso il conflitto tra Israele e Libano, scoppiato dopo il rapimento di alcuni soldati israeliani nella zona di confine: una guerra di circa 40 giorni che ha provocato 1.500 morti e notevoli danni alle infrastrutture libanesi, e di cui il cessate-il-fuoco è stato raggiunto grazie alla mediazione delle Nazioni Unite con l’Italia grande protagonista. E proprio Roma si è messa alla guida della missione internazionale Unifil che oggi pattuglia il sud del Paese lungo il confine israelo-libanese la cosiddetta blue-line.
Il ruolo dell'Italia in Libano

I caschi blu in realtà sono in Libano dal 1978, quando è scoppiata la guerra civile e successivamente le forze filopalestinesi hanno combattuto contro Israele. La missione Unifil, il cui mandato è stato ridefinito dal Consiglio di Sicurezza Onu per ben quattro volte alla luce degli eventi che si sono succeduti in Libano, conta oggi su circa 10.500 militari grazie al contributo di 47 Stati. L’Italia mette in campo oltre 1000 uomini e alcune centinaia di mezzi (si tratta della missione all’estero al momento più numerosa per le nostre forze armate). Anche il capo missione Unfil è italiano: dal 2018 la guida il maggiore generale Stefano Dal Col, che ha avuto esperienze in Libia, in Kosovo e proprio in Libano. Nonostante la presenza dei caschi blu, ogniqualvolta vi sia una fase di tensione tra palestinesi e israeliani oltre confine, l’allerta sale anche al di qua della Linea blu con inevitabili perturbazioni anche nella politica libanese. Senza dimenticare che nel Paese sorgono vari campi di profughi palestinesi a cui negli ultimi anni si sono aggiunti i profughi siriani.
I profughi dalla Siria
Dal 2011, con l’inizio del conflitto in Siria, la situazione è infatti ulteriormente peggiorata. Hezbollah, forza filoiraniana, ha inviato i propri miliziani a combattere oltre confine a sostegno del regime di Assad e contro qaedisti, ma anche contro l’Fsa, l’esercito libero siriano. Tra il 2014 e il 2015 l’esercito libanese ha dovuto anche fronteggiare lo sconfinamento di forze dello Stato islamico e di Al-Nusra (Al Qaeda in Siria), che hanno preso in ostaggio anche militare libanesi. La regionalizzazione del conflitto siriano ha portato anche all’attentato suicida per mano di due kamikaze dell’Isis che nel 2015 hanno colpito un quartiere sciita di Beirut causando la morte di 43 persone. In precedenza erano stati uccisi il capo della sicurezza libanese e altri esponenti sciiti. L’attentato è stato reso possibile anche dagli appoggi che l’Isis aveva in Libano da parte delle forze sunnite (che ricevono sostegni e finanziamenti dai Paesi del Golfo e dall’Arabia Saudita). Non è nemmeno un caso che Isis e Al Qaeda abbiano provato ad ampliare la loro influenza in Libano non solo con l’espansione territoriale, ma anche provando a fare proselitismo tra i profughi siriani nei campi (le cifre ufficiali parlano di 900mila persone ma si stima che siano circa un milione e mezzo).
I delicati equilibri confessionali
Si capisce così come in Libano si scarichino tensioni regionali e gli attori politici nazionali siano rappresentanti di potenze estere a partire dall’Iran, dalla Siria, con la presenza di disturbo di Israele, oltre che delle grandi potenze sunnite con gli Stati del Golfo, in prima fila per contrastare Hezbollah. A complicare ulteriormente il quadro, in Libano vi è anche una presenza cristiana consistente: secondo alcune stime, i cristiani sono circa il 40% della popolazione, più di due milioni di fedeli, tra maroniti, caldei, armeni, siriaci. Il numero è diminuito dopo la guerra civile a partire dal 1982.
Per garantire la tenuta dello Stato il sistema parlamentare è bilanciato secondo i delicati equilibri confessionali: il presidente della repubblica è un cristiano maronita, il primo ministro un musulmano sunnita e il presidente del parlamento un musulmano sciita. E così anche i 128 seggi del parlamento sono divisi: 64 alla comunità cristiana e altrettanti ai musulmani. Il rischio di ingovernabilità è quindi altissimo, come dimostrano gli sviluppi politici recenti e lo stallo della politica libanese, a cui si deve anche la stagnazione delle indagini sull'esplosione del porto durata finora.
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