Chi protesta se una fabbrica muore?

La vicenda è fresca, di qualche settimana fa. Ed è la storia di una multinazionale farmaceutica - la Catalent - che ad Agnani, vicino a Roma, intendeva investire 100 milioni di euro per un centro di sviluppo su materie prime biologiche che avrebbe comportato il rinnovo del contratto ad un centinaio di ricercatori.
La storia è stata, fra gli altri, raccontata da Angelo Camilli, presidente di Unindustria Lazio ed è in qualche modo riassumibile così: oltre due anni fa la Catalent avvia una procedura di caratterizzazione ambientale nel perimetro del sito di interesse nazionale (Sin) «Bacino del fiume Sacco».
È una procedura particolare, da seguire con qualche attenzione aggiuntiva ma - si chiede Camilli - due e passa anni senza risposta sono tanti, troppi. Il risultato è che la Catalent dice addio all’Italia e quel che doveva fare ad Agnani lo farà in Inghilterra. Non saprei dire se ci siano margini di qualche recupero, ma ad oggi le cose stanno così.
Fine della storia, 100 milioni in meno di investimenti in Italia, 100 posti di lavoro qualificati che ci fumiamo. Non è la prima volta che accade. La cosa non ci consola, semmai fa alzare la pressione.
Ora, al netto degli accertamenti da fare, delle norme da seguire eccetera eccetera, possiamo serenamente dirci che due e rotti anni son tanti? Non c’è modo per evitare questi scempi? Sottoscriviamo l’amarezza del presidente di Unindustria Lazio: «Ci sono cortei e contestazioni davanti ad una fabbrica che vuole chiudere. Non c’è mai nessuno davanti alle porte di un’azienda che rinuncia ad aprire».
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