Maurizio Franzini: «Anche i ricchi cambiano, serve ridurre le differenze»

Anche il mondo dei «super ricchi» sta cambiando profondamente. Se da un lato infatti si sta allargando la forbice della disuguaglianza, dall’altro nell’empireo della ricchezza ad avere un posto privilegiato sono sempre più i manager, ma anche sportivi e star di musica e cinema. A sostenerlo è Maurizio Franzini, economista e professore all’Università di Roma La Sapienza, ospite domani alle 17.30 al teatro Sancarlino in corso Matteotti 6 a Brescia, del secondo incontro del ciclo «La sfida delle disuguaglianze» promosso dalla Fondazione Clementina Calzari Trebeschi con Fondazione Luigi Micheletti e Anpi.
Professore, cosa vuol dire che anche il mondo dei ricchi si sta trasformando?
Negli ultimi anni si è verificato un cambiamento significativo nella distribuzione del reddito, in particolare al vertice, e questo si riesce ad evincere andando a valutare quei parametri che tante volte non vengono presi in considerazione. La quota di reddito complessivo detenuta dall’1% più ricco della popolazione è aumentata quasi ovunque, negli Stati Uniti in modo particolarmente marcato: all’1% della popolazione statunitense va circa il 20% del reddito del Paese. In Europa la tendenza è la stessa, seppur con proporzioni più contenute. In Italia per esempio a inizio secolo tale quota era del 6%, oggi si aggira intorno al 10%.
Quali sono le fonti di questi redditi?
In passato la quota maggioritaria veniva da profitti da capitale o da impresa. Ora invece è aumentato molto il peso dei redditi «da prestazione». A percepirli sono amministratori delegati e top manager, ma anche superstar dello sport e dello spettacolo, che oggi guadagnano cifre senza precedenti. In altre parole la nuova élite economica non è definita tanto dal possesso di capitale fisico o finanziario, che pur rimane, quanto dalle posizioni occupate e dal potere contrattuale che queste conferiscono.

Cosa intende con potere contrattuale?
I tratti caratteristi di queste professioni sono due: la scarsa competizione e il fatto che in molti casi le regole siano fatte dalle stesse persone che poi le devono rispettare: si veda in questo caso Elon Musk che decide la sua retribuzione. Nel mondo dello sport inoltre, sul fronte della scarsa competizione, tanti soldi derivano da attività pubblicitarie. Interessante anche il caso della musica. Qui, grazie anche all’evoluzione tecnologica, si possono ottenere guadagni impensabili prima, come quelli dati da un concerto in uno stadio, enormi se confrontati con quelli di un live in un teatro.
Come impattano queste disuguaglianze sulle fasce più povere della popolazione?
L’impatto è profondo e tocca aspetti economici, sociali e civili. I dati sulla povertà assoluta per esempio mostrano numeri molto elevati. Si tratta di un concetto definito sulla base di criteri precisi – cioè la capacità o meno di sostenere un livello minimo di consumi essenziali. Ebbene, quando la disuguaglianza cresce, cresce anche la povertà assoluta. Inoltre una società con disuguaglianze elevate è più esposta a tensioni e ribellioni sociali. Infine le persone che vivono in condizioni di svantaggio economico hanno meno possibilità di investire su loro stesse, su competenze e formazione. C’è poi un effetto dimostrato sulla qualità della vita e sulla partecipazione civica, con crescita del senso di sfiducia nelle istituzioni.
Come si può intervenire per ridurre queste disuguaglianze?
Ci sono vari modi per farlo, dalla tassazione, che interviene sui redditi dopo che si sono formati, a meccanismi che invece si inseriscono prima, dal funzionamento dei mercati nei quali questi soggetti si muovono alla fissazione di tetti salariali.
Quali gli ostacoli maggiori?
Qualche passo è stato fatto, si pensi alla tassazione globale dei super ricchi decisa al G20 in Brasile, scelta poi bloccata dagli Usa. Anche ciò dimostra che c’è un problema di interessi che devono convergere. Inoltre un grosso freno arriva da quei partiti che hanno la lotta alle disuguaglianze nel loro Dna. Si sono convinti che riducendo le disuguaglianze si riduca il Pil. Ma i dati dicono il contrario, come dimostra l’esperienza politica ed economica socialdemocratica del secondo dopoguerra. La sinistra ha mancato di porre attenzione sul tema, vedendo questa sfida non con intenti punitivi e non come occasione di crescita.
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