Iveco, 50 anni fa la Om entrava a far parte della Fiat

Nel 1975, quando Iveco entra in Om, a Milano le azioni in Borsa si trattano alle grida. Nello stesso anno nasce la Microsoft, viene inaugurata Gardaland, Antonio Angelillo allena il Brescia, nelle scuole si eleggono i primi rappresentanti di studenti, genitori e docenti e l’ingegnere concittadino Bruno Beccaria, che in Om era entrato nel 1941 dopo la laurea al Politecnico e che dal 1968, dopo l’incorporazione in Fiat era diventato direttore della divisione veicoli industria, diventa amministratore delegato di Iveco, holding che riunisce attività e marchi Fiat veicoli industriali, Om di Brescia compresa.
Manager di visione (aveva consigliato a Giovanni Agnelli di non vendere i motori alla Russia, temendo che potessero essere essere usati per i carri armati); Beccaria era attento ai giovani («Alla sera – raccontò su queste colonne negli anni Ottanta – i miei collaboratori migliori venivano a casa mia a imparare ad usare il regolo e a leggere i disegni») e difendeva i suoi collaboratori (riportò a Brescia due tecnici non graditi a Torino «Nalesso, tecnico di fabbricazione meccanica, e Rosso, capo della carrozzeria, uomini che sapevano tenere la fabbrica» ipse dixit). Beccaria era anche autorevole: quando in Brasile si discuteva su chi attribuire la presidenza della «Fabrica nacional de motores» di Rio de Janeiro, Gianni Agnelli disse: «Le cariche non contano quando c’è Beccaria che sa comandare»).

Inoltre, mise alla stanga i suoi collaboratori quando, a Brescia, in occasione di un test della Nato per una commessa di mille camion 6x6, che sarebbero serviti a creare ponti su fiumi, e i motori dei prototipi non volevano saperne di accendersi, Bruno Beccaria disse ai generali, italiani e stranieri, ospiti «... andiamo a pranzo e quando torniamo funzioneranno». Così avvenne e Torino, per riconoscere all’Om bresciana il successo commerciale, decise di «regalare» il centro estivo di Padenghe e quello ricreativo di Brescia.
Il territorio e le persone
Ma non c’era solo il prodotto, per l’ingegnere da giovane cresciuto in via Corsica: c’erano anche il rapporto con il territorio e le persone. Disse, riferendosi alla meccanica bresciana di cui Om è stata la culla, che l’indotto «per esser forte doveva sì avere alle spalle un grande gruppo che per la ciclicità del mercato può ridurre le commesse, ma non azzerarle». Con padre Ottorino Marcolini e con il notaio Giuseppe Camadini, Beccaria evitò la chiusura degli impianti Om di Brescia (comprata da Fiat nel 1933 insieme con lo stabilimento di Suzzara, dopo che nel 1929 era stata creata la divisione veicoli industriali), esternalizzando parte delle lavorazioni a cooperative di operai in Valle Camonica. Sempre con padre Marcolini si era impegnato nei progetti dei villaggi per gli operai con la formula della «Sputnik»: 300mila lire venivano anticipate con il Tfr da Om, 300mila di mutuo Cariplo e 300mila di risparmi dell’operaio.

I numeri
Dopo esser stato chiamato nel 1968 a Torino a dirigere la divisione veicoli industriali e trattori di Fiat, conservando al contempo la responsabilità di tutto il settore diesel di Fiat-Om, nonché della francese Unic, nel 1971 Beccaria diventa vice direttore di Fiat e nel 1974 entra nel consiglio di amministrazione. Nel primo anno di attività, Iveco produce 63.000 veicoli e 13.000 autobus, ma il mercato chiede riorganizzazioni, razionalizzazione dei prodotti, degli stabilimenti e delle reti commerciali. I cinque marchi originari inizialmente rimangono sotto il «tetto» di Iveco e dal 1975 al 1979 il gruppo dispone di 200 modelli di base e 600 versioni da 2,7 a più di 40 tonnellate, cui si aggiungono gli autobus e i motori. Nel 1978, Iveco mette in strada uno dei suoi più grandi successi, il Daily, l’altro sarà l’Eurocargo (oggi prodotto nello stabilimento cittadino, in via Volturno).
Oggi nell’orbita di Exor (holding finanziaria olandese controllata dalla famiglia Agnelli), Iveco continua la sua storia in Italia a Brescia (ex Om) e in parallelo nei siti di Suzzara (Mantova), Foggia e Torino, confermandosi una palestra di fatica (partire dalla Valle Camonica con il bus per essere in fabbrica alle 6 è fatica); una palestra di lavoro (negli anni di massima occupazione raggiunse i seimila addetti); una palestra di integrazione (con l’occupazione di immigrati); una palestra di aristocrazia operaia (c’erano operai che «sapevano fare i baffi alle mosche» come si diceva prima dell’arrivo dell’automazione); una palestra sindacale (con gli autoconvocati di Giovanni Landi); e anche una palestra di tecnologia e fantasia. Simbolica in tal senso la genesi del Leoncino, grandissimo successo commerciale erede del «Loc», ma chiamato così dagli operai perché sul primo foglio di lavorazione manteneva la sigla «l.o.c.», da cui «elloci», quindi in dialetto «el leoncì» e infine «Leoncino».
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