Il coronavirus sgretola il commercio: vendite giù dell’85%
La preoccupazione vera, quella che non li fa dormire di notte, è che i mesi più bui - in realtà - li debbano ancora conoscere. Al punto che persino se si parla di «brusca frenata» si ha l’impressione di minimizzare la situazione. Per capirlo basta fare sfilare - economicamente parlando - due crude percentuali, atroci e impietose: i consumi sono franati a -85% e le porte che resteranno chiuse a doppia mandata rappresentano il 20%, una stima che - per dirla con i rappresentanti delle associazioni categorie - «abbiamo il forte sentore che descriva un’approssimazione per difetto».
La nuova normalità del mondo del commercio ha avuto un risveglio brusco. Una grande slavina che rischia di trascinare rovinosamente a terra anche coloro che, fatica dopo fatica, stavano cercando di mantenere in equilibrio i propri negozi, i propri alberghi, i propri ristoranti e che hanno tentato - in prima battuta - di non licenziare il personale che conoscono da una vita e del quale conoscono ormai le famiglie. Un mondo, quello del commercio e delle piccole imprese, che ora non vede alcuna prospettiva se non la paura, e lo sconforto, di non riuscire a farcela. O, almeno, non senza essere equipaggiati con «armi e armature» idonee.
A fornire un valore al crollo dei consumi è lo studio vergato da Confimprese e condotto in partnership con EY attraverso l’Osservatorio permanente. L’indagine evidenzia la parabola nera legata ai mesi scanditi dal dramma coronavirus, che ha letteralmente riscritto la storia di questi settori.
La Lombardia è la regione che ha registrato il peggior trend nel mese di marzo: -83%, seguita da Toscana (-80,9%), Emilia-Romagna (-80,5%) e Veneto (-80%). Il Nord-ovest registra una flessione 81%, trainato in particolare dalla Lombardia e dalle province più colpite dal virus. Province tra cui è inclusa anche Brescia che, con un calo dell’85% registra - esattamente come Bergamo, una performance peggiore sia rispetto alla media nazionale sia rispetto a quella regionale. Sotto lo scanner dell’Osservatorio ci sono anche i singoli settori: abbigliamento e accessori registrano il trend peggiore (-82%), seguito da food&beverage (-78%), quindi il non food (-74%). Si tratta, in sostanza, di un andamento legato in parte al fatto che alcuni operatori hanno potuto proseguire le attività con un’operatività - seppur ridotta ai minimi termini - durante il lockdown.
A questo contribuisce anche una modifica fisiologica dell’orientamento dei consumatori, concentrati principalmente verso l’acquisto dei beni di più immediata necessità. Se però nel pieno dell’emergenza tutti erano pronti all’impatto, a fare salire sugli scudi i rappresentanti delle categorie è proprio l’avvio di questa agognata fase due «improvvisata e senza alcun criterio né aiuto». A partire dal calendario prescelto per le aperture bollato come «inspiegabile» (con le attività previste al via il 18 maggio e i bar e ristoranti posticipati ulteriormente a giugno).
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