Confindustria Lombardia, Pasini: «I giovani? Farli innamorare della fabbrica»

«Quando ti arriva una chiamata come quella di Confindustria Lombardia, una chiamata molto forte, da parte di tanti componenti dell’associazione, non puoi tirarti indietro. Mi creda, al di là delle critiche e delle amarezze passate, non avevo nessuna intenzione di rimettermi in gioco: ero ormai orientato sul futuro di Feralpi e su altri progetti. Inoltre, in una fase storica complicata come quella attuale sarebbe stato per me più semplice fare un passo indietro, ma non sarei stato corretto nei confronti di chi sosteneva la mia candidatura: troppo facile censurare "questo o quello" e poi voltargli le spalle. Mi sono così confrontato con alcuni amici presidenti, che mi hanno fatto ragionare e dopo qualche resistenza ho detto loro: "Va bene, lo faccio". Eccomi qui ...». Giuseppe Pasini è il nuovo presidente di Confindustria Lombardia. I suoi occhi celesti oltre a essere coerenti con il suo gessato blu, nascondono un po’ di stanchezza. Il suo sguardo, tuttavia, è una forma di garanzia all’impegno che dedicherà anche a questo incarico.
A debita distanza lo controllano due guardie del corpo, che dal settembre 2020, quando gli è stato recapitato un pacco bomba in Feralpi, lo seguono in tutti i suoi spostamenti. Pasini è appena sceso dal palco accompagnato da un lungo applauso ed è circondato dal pieno sostegno di imprenditori e rappresentanti istituzionali presenti in Fondazione Feltrinelli, a Milano. Ha chiuso il suo intervento palesando una innata passione per il lavoro e con un rammarico: «La fabbrica sta uscendo dai radar dei ragazzi e delle ragazze».
Si spiega anche così, forse, la difficoltà che molte imprese riscontrano nel trovare personale?
«Non ho dubbi: anche per questo motivo paghiamo lo scotto della distanza tra offerta e domanda di lavoro - continua il bresciano -. Oggi la grande sfida che dobbiamo porci è questa: rifare innamorare i nostri giovani della fabbrica, non dell’azienda».
Qual è la differenza?
«La fabbrica, intesa come luogo fisico, è ancora una palestra sociale, di aggregazione e inclusione. Lei si trova di fronte a un imprenditore che quando gli parlano di lavoro da remoto il più delle volte replica con un secco "no". Sono consapevole che lavorare da remoto a volte sia funzionale alla causa dell’azienda, ma io sono convinto che solo lavorando insieme si faccia gruppo, come in una squadra di calcio che si allena tutti i giorni, altrimenti non funziona. L’azienda, per certi versi, è come una squadra di calcio: quando c’è qualcuno che fa fatica, se ci lavori insieme, lo trascini con te al traguardo finale. Ecco, questa è l’inclusione. Come si può fare inclusione lavorando da remoto?. Vi ricordo che lavorando insieme abbiamo fatto grandi le nostre imprese, che in larga maggioranza sono imprese familiari».
Non mi ha ancora spiegato però come i giovani si possono innamorare della fabbrica.
«Spesso sento parlare i miei ragazzi in azienda e lo ammetto: sono davvero bravi e preparati. Ti viene anche voglia di provocarli. Vede, noi dobbiamo intercettare i loro sogni: troppo spesso le fabbriche sono dipinte come "brutte, sporche e cattive" perché chi parla così delle nostre imprese non ci è mai entrato. Relegare le industrie al passato senza mettere in luce l’innovazione pervasiva è un paradosso che non accettiamo».
Mi sta dicendo che il cosiddetto «mismatch» tra domanda e offerta di lavoro non è solo una questione legata al salario?
«Resta il fatto che sta a noi rispondere attivamente ai bisogni delle nuove generazioni perché senza ingaggio e affezione non c’è competenza che tenga. Possiamo invece vedere in un nuovo umanesimo tecnologico la continuità con il nostro passato. Le nostre aziende sono delle vere palestre sociali, dei luoghi di aggregazione che, nel mettere al centro il lavoro e la condivisione degli obiettivi, diventano realtà multiculturali e inclusive. È anche una questione di continuità del business perché le rammento che siamo di fronte non a un inverno demografico, ma a un inferno demografico».
A questo punto tocchiamo anche il tema dell’immigrazione. Lei è per la chiusura delle frontiere?
«Assolutamente no. Dobbiamo lavorare per attrarre talenti dall’estero e integrarli nel nostro tessuto produttivo. Purtroppo è il contrario di quello che stiamo vedendo un po’ in tutta Europa, con la Germania a fare da triste vetrina a nazionalismi che vedono nell’esclusione la risposta immediata a un forte malcontento sociale. Sono invece convinto che serva favorire l’integrazione dei giovani immigrati, promuovendo politiche di inclusione sociale e lavorativa».
In Germania, in effetti, si sta assistendo a una forte ascesa politica dell’ultradestra. Lei ha uno stabilimento a Riesa, in Sassonia, dove avete recentemente stanziato 200 milioni di investimenti: la situazione politica del Paese la preoccupa?
«Ho la sensazione che in Germania non abbiano ancora compreso bene il cambiamento in atto. Le forze di estrema destra toccano la pancia del Paese e se gli altri partiti non riescono a intercettare i bisogni di quella gente, alle prossime elezioni l’Afd salirà dal 30 al 40% delle preferenze».
Non le pare che lo stesso scenario (con gli stessi mal di pancia) si possa riscontrare anche nell’America di Donald Trump?
«Vero, sono d’accordo. Ma negli Stati Uniti si sta facendo una politica diversa a favore delle imprese. Se io, oggi, dovessi chiedere a centro imprenditori lombardi dove vorrebbe investire nei prossimi anni, sono straconvinco che solo il 20% mi risponderebbe: "In Europa", mentre l’altro 80% "Fuori dall’Europa". E sa dove? Negli Stati Uniti, nonostante un presidente come Donald Trump».
Nel 2020, quando era alla guida dell’allora Associazione industriale bresciana e si era candidato al vertice di Confindustria nazionale considerava l’Europa «la nostra casa». A distanza di cinque anni crede ancora nell’Ue?
«Non potrei pensarla diversamente: Feralpi dopotutto ha stabilimenti in diversi paesi europei. Forse nel 2020 ero meno scettico sull’Europa. Oggi, dopo i primi quattro anni segnati dalla politica di Ursula Von der Leyen e per come sono state portate avanti determinate tematiche, sono sicuramente più diffidente».
Immagino che si riferisca alle politiche legate al tema energetico oppure alla transizione dall’auto a motore endotermico a quello elettrico...
«In Europa c’è stato un disallineamento tra il mondo politico e quello economico. L’ideologia di alcune forze politiche ha prevalso sul bene comune e sulla nostra cultura industriale, nonostante il mondo scientifico confermasse la funzionalità di determinate tecnologie per raggiungere gli ambiziosi obiettivi fissati dai vertici Ue. La vecchia Commissione Ue he gestito certe tematiche, come quella dell’auto, in modo scellerato, gettando al vento duecento anni di lavoro. Adesso, per fortuna, il secondo mandato di Von der Leyen è iniziato con un maggiore confronto con le imprese e si ha la netta sensazione che il vento sia cambiato. Nel frattempo, comunque, le imprese hanno perso competitività rispetto al resto del mondo. La risposta all’ideologismo c’è ed è il pragmatismo che noi imprenditori utilizziamo nelle nostre aziende».
Lo stesso discorso vale anche per la questione energetica?
«Le rispondo riportandole un confronto impietoso: il costo del gas negli Usa è di 7,4 euro/mwh, mentre in Europa è di 34,4 euro/mwh e in Italia addirittura di 36,3 euro/mwh. I rincari delle bollette hanno complicato il quadro economico e stanno mettendo a dura prova imprese e famiglie. Del resto, questo è il risultato di una strategia energetica europea che non è mai decollata perché all’interno del Continente prevalgono gli interessi nazionali rispetto a una visione Comune. Dobbiamo essere concreti e veloci con azioni che Confindustria ha proposto nel breve e nel medio-lungo periodo».
Che modello di associazione proporrà per il suo mandato in Confindustria Lombardia?
«Lei mi conosce bene. Uno degli aspetti più importanti per una associazione che vuole rafforzare il sistema di rappresentanza è l’ascolto. Sarò sempre pronto a raccogliere idee e proposte dalle nove associazioni territoriali perché la voce di Confindustria Lombardia emerga in modo collegiale. La Lombardia ha un patrimonio di aziende che rischiamo di mettere a repentaglio, distruggendo un valore che è stato costruito in decenni ed è per questo motivo che dobbiamo ripartire dalla centralità della manifattura, mettendola tra i primi punti dei programmi politici di sviluppo del Paese».
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