Nella vita eterna, con tutta la nostra umanità: lo ha promesso il Vangelo

La prospettiva della nuova vita che attende i cristiani e che dovrebbe rappresentare l’approdo finale della loro esistenza vale assai poco a confortarli. Non è forse vero che credenti e non credenti, senza distinzione, temono la morte e sono spesso disposti a fare qualunque cosa per procrastinarla? Un vecchio detto popolare, espresso nel dialetto bresciano, recitava: «l’è méi stà de chè a guadagnàselo che ‘ndà de là a godéselo [è meglio star qui a guadagnarselo (il Paradiso) che andare di là a goderselo]».
Il fatto che la promessa della vita eterna non aiuti, come dovrebbe, il credente ad affrontare più serenamente l’enigma della morte trova certamente la sua spiegazione nel carattere traumatico dell’evento; ma io credo che derivi anche dall’assenza di una visione appropriata della vita ultraterrena, non essendo attraente l’immagine di un mondo del tutto estraneo e quasi contrapposto a quello della nostra vita. Qui, il mondo umano degli affetti, delle passioni e dei desideri propri di esseri corporei; là, un mondo di puri spiriti, immersi nell’«immagine lattiginosa e bianca di una beatitudine stazionaria» (Vincenzo Paglia).
Questa immagine dipende dal fatto che nella tradizione cristiana è stata a lungo radicata l’idea che il corporale è l’opposto dello spirituale. Una vita eterna così fatta non può interessare nemmeno uomini che hanno dedicato la loro vita alla fede e al servizio di Dio: «Quella vita eterna che mi prospettavano nella mia infanzia mi sembrava una vita svuotata, in cui nulla poteva succedere, sempre uguale, inaridita dall’assenza di emozioni e priva di sentimenti, affetti e passioni: una pura durata eterna! Se cercavano di spiegarmi che era quello che viveva mia madre in cielo, mi assaliva una terribile angoscia che mi spingeva a uscire fuori dall’aula del catechismo per respirare all’aria aperta guardando alberi, case, persone, animali».
La mancanza di attrattività di una vita dopo la morte in una realtà eterea e smaterializzata spinge Enzo Bianchi ad affermare: «Se non ritrovassi di là chi ho amato, i miei amici, anche chi ho amato in modo non conforme alla volontà di Dio, forse preferirei in quel caso non andare in paradiso, ma entrare in quel nulla che c’era per me prima della mia nascita. Carne e sangue sono gli incontri, gli amori, gli abbracci, i baci, il danzare insieme e non andranno perduti. Anche Michelangelo nella Cappella Sistina ha osato evocare i beati che dopo il giudizio del Veniente si abbracciano e si baciano». Nella convinzione più diffusa che la morte produca la perdita irrimediabile del nostro vissuto terreno la vita eterna è immaginata come «prosciugata di emozioni e senza gli affetti, fissata nell’eternità di uno stato di pura durata: quasi alla vita dell’anima bastasse di durare per sempre, riempita di Dio e vuota di umanità».
Dualismo
Come ha potuto formarsi un’idea della vita eterna così astratta, svuotata di umanità e proprio per questa ragione sostanzialmente rimossa dalla mente e dal cuore dei credenti? Io penso che la risposta vada cercata nella concezione dualistica dell’essere umano, imperniata sulla contrapposizione tra anima e corpo. Concezione che il pensiero cristiano, nel suo sviluppo storico, ha mutuato dalla filosofia platonica. L’idea che alla morte del corpo sopravviva l’anima ha rappresentato una delle più alte conquiste del pensiero precristiano, in quanto ha permesso di soddisfare l’aspirazione all’immortalità, la più antica e radicata aspirazione dell’uomo.
Ma i Vangeli hanno annunciato qualcosa di molto diverso: la risurrezione di tutto l’uomo. La risurrezione di Gesù significa, come la Chiesa proclama solennemente nel Credo, che la carne, cioè il corpo umano, è una componente essenziale della vita eterna promessa dal Vangelo. La vita terrena ha un valore incommensurabile, essendo un anticipo di quella perfetta che verrà. Ma a questo punto diventa inevitabile porsi la domanda chiave: che rapporto c’è tra la vita terrena e quella eterna? Nel confronto prevalgono gli aspetti di continuità o quelli di discontinuità? La risposta sorprendente è che vi sono entrambi e non si contraddicono. Anche per questo la vita eterna si presenta come uno straordinario e affascinante mistero. L’annuncio cristiano sarebbe ingannevole se in un’altra vita non si ripresentasse - liberata dai limiti (il minus) che qui sulla terra sono la causa di tanta sofferenza - la nostra condizione umana.
Norberto Bobbio, in un libro che riporta un’intervista concessa poco prima di morire, dichiara di non essere credente. E spiega che la vita eterna promessa dal cristianesimo non esercita su di lui alcuna attrattiva. «Qualche volta, pensando alla morte di una persona particolarmente cara - mio padre ad esempio -, so che quella persona che ho amato ora non c’è più. E che ci sia qualche cosa di lui in un altro luogo - che non so dove sia - a me non importa assolutamente nulla.
La persona che ho amato era quel particolare modo di sorridere, di farci giocare, di raggiungerci in campagna alla fine della settimana quando eravamo in vacanza, la nostra attesa sul cancello della casa per aspettarlo e poi salutarlo festosamente: questo so per certo che non c’è più». Bobbio pensa che questi momenti belli, semplici e santi, della sua vita siano persi per sempre. Invece proprio quello che egli vorrebbe rivivere è ciò che è stato promesso dal Vangelo a coloro che credono nel Figlio dell’uomo.
Se è annunciata una restitutio ad integrum, ha scritto Paolo De Benedetti, «dobbiamo pensare al paradiso non come è raffigurato nelle chiese, ma come recupero delle cose semplici, quotidiane». Per essere attratti dalla bellezza e dalla bontà bisogna pensarle in concreto, cioè nel vissuto, e non in astratto.
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
Iscriviti al canale WhatsApp del GdB e resta aggiornato
@News in 5 minuti
A sera il riassunto della giornata: i fatti principali, le novità per restare aggiornati.
