«Ogni teatro è anatomico»: la lezione di Luca Micheletti
Il teatro come «vocazione a raccontare qualcosa di infinito attraverso mezzi finiti». I libri come «portali d’accesso a universi imprevisti», nella ricerca di una dimensione che alla carta manca. Di esperienze d’incontro tra «Letteratura & Teatro» Luca Micheletti è autorevole e illluminante testimone: attore e regista, baritono di fama nel mondo attualmente impegnato alla Scala per «Così fan tutte», studioso con dottorato di ricerca in Italianistica, oltre che regista stabile della compagnia «I Guitti» nella continuità della storica tradizione di famiglia, ha portato ieri le sue riflessioni in tema di «Invenzioni, scritture, metamorfosi, dalla pagina alla scena» nell’aula magna dell’Università Cattolica per il ciclo d’incontri in collaborazione con il Ctb.

Dalla pagina alla scena
«La letteratura è qualcosa di orizzontale, nel passaggio dalla pagina alla concretezza della scena verticalizziamo – ha spiegato il relatore in dialogo con la curatrice del ciclo Lucia Mor –: non solo operiamo al di sopra ma anche in profondità. La letteratura era in passato al servizio del potere, dal Novecento si è resa schiava dell’io – ha aggiunto -. In viaggio nella sua interiorità, l’attore si trova a suo agio, ma corre il rischio di esser troppo autoreferenziale. Il testo si semplifica e al contempo si attacca a qualcun altro».
Lo scavo in profondità si fa esplorazione del rimosso, citando Antonin Artaud si può attribuire al teatro un carattere disturbante, nel suo rimettere in discussione l’uomo. «Ogni teatro è un teatro anatomico – ha osservato Micheletti richiamando parole di Edoardo Sanguineti –: è un luogo d’osservazione clinica di qualcosa di morto che si torna a far vivere». Nel gioco delle metamorfosi, l’«Essere o non essere è la più grande metafora dell’attore. La letteratura è il pre-testo, oggetto ausiliario, e va rivendicata la sua possibilità di essere pratica».

Onestà intellettuale
«La parola è meno rilevante di come viene pronunciata. Il cantante deve dare senso alle parole, ma arriverà prima allo spettatore il senso musicale», ha detto ancora il relatore che, dalla sua esperienza di traduzioni, ha portato un passo dal «Medico controvoglia» di Molière. Per restituire il sapore popolaresco del patois della periferia parigina ha scelto il romanesco: ne ha dato un’applaudita prova, mettendolo a confronto con una traduzione «abbottonata».
«Ci vuole coraggio, l’onestà intellettuale è la premessa, nel faticoso tentativo di tenere l’asticella alta, con rispetto per lo spettatore», ha aggiunto richiamando la messa in scena delle «Metamorfosi» di Kafka (ritenuta impossibile da Adorno) con il racconto della relazione d’aiuto a un disabile: parole dell’autore per una storia vicina a noi. Molière fu sepolto in terra sconsacrata di notte, per secoli il teatro è stato tenuto lontano dalla società civile. «Cerco di far coincidere il mestiere e il ruolo sociale con un approccio umile e consapevole, attraverso lo studio»: alla responsabilità dell’attore erano rivolte le parole conclusive.
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