Bello Palazzo Loggia, ma ci siete mai entrati?

Se la Loggia è il simbolo di Brescia non è solo per la sua forma accogliente e per il color turchese che spicca guardando la città dall’alto. La Loggia è simbolo di Brescia perché ogni sua pietra narra un frammento di storia: uno dopo l’altro diventano un’architettura che è voce della città e dei suoi abitanti. A raccontarlo è Lara Contavalli di «Oltre il tondino»: con lei siamo entrati nel palazzo sede del Comune di Brescia per scoprirne la storia e i dettagli. Incuriositi anche dal fatto che riscuote parecchio successo tra i turisti (e forse meno tra i bresciani che lo danno ingiustamente per scontato).
Piazza della Loggia, cuore della città
Prima di parlare dell’interno della Loggia è necessario osservare la piazza antistante, che è il cuore civile di Brescia, a due passi dal cuore religioso, piazza Paolo VI.

La storia inizia nel 1426, con la congiura di un gruppo di bresciani contro i milanesi: Brescia giurò fedeltà a Venezia, ma le guerre fra i due eserciti continuarono. Diventando veneziani a tutti gli effetti, anche la città ne risentì esteticamente e per questo alcune persone notano dettagli che ricordano quegli degli edifici della Laguna.
«Questo capitolo si chiuse nel 1438», ricorda Contavalli, «quando i bresciani dagli spalti del Roverotto scacciarono il milanese Piccinino (con l’apparizione dei Santi Patroni). Fu uno dei primi podestà appuntati dal governo veneziano, Marco Foscari, a ipotizzare la costruzione di una nuova piazza cittadina che diventasse sede delle magistrature e che accogliesse la cittadinanza».
Dove oggi vi sono i portici, lì c’erano le mura della Cittadella Nuova costruita dai milanesi come fortificazione militare di quella che oggi è piazza Paolo VI. L’area dove oggi sorge la piazza era dunque perfetta per magistrati e per la popolazione.
La prima Loggia che fu costruita era più piccola e non si sa esattamente dove sorgesse. Probabilmente stava dove oggi vi è il primo ordine di lampioni. In poco tempo si pensò dunque di costruire un edificio più ampio più a Ovest, dove scorreva il Garza. Così, nel 1477 si iniziò la grandiosa copertura del torrente.
La prima pietra

Erano le 15 del 3 marzo 1492 quando venne posata la prima vera pietra di superficie del palazzo che conosciamo: è quella posta all’angolo sulla sinistra. «Il progetto venne realizzato da Tommaso Formentone, vicentino, che portò a Brescia su un carro trainato da quattro cavalli il modellino di legno. L’ingegnere che seguì i lavori fu invece Filippo De Grassi», dice la guida turistica.
In quegli anni a Brescia c’era grande fermento architettonico ed era pieno di cantieri. Era il tempo del rinnovamento della grande edilizia religiosa, civile e privata. Brescia era un vero cantiere a cielo aperto: «Palazzi di nobili famiglie, edifici religiosi e civili come il Monte di Pietà Vecchio e Nuovo sul lato Sud della piazza...», illustra Contavalli. «Sulle pareti della facciata per la prima volta vennero posizionati marmi romani recanti incisioni celebrative o epigrafiche. Di fatto, la scelta di conservare per le pubbliche fabbriche della città quelle pietre antiche, rendono il Monte di Pietà un esempio illuminato di conservazione dell’antico. Un vero museo epigrafico, un omaggio al glorioso passato della città».
La facciata
La prima fase costruttiva riguardò la facciata, con la realizzazione del primo ordine: presenta arcate solenni, enormi pilastri e una partitura essenziale che si svela nei chiaro scuri attraverso i profondi fornici. «Ma sono i busti degli imperatori, opera di Gasparo da Cairano, che emergono quasi in 3D dal nero delle lastre di nero di Torbole. Sono così realistici, nel loro tutto tondo, da lasciarci senza parole».

Nei palazzi pretori era uso realizzare gli ingressi alle sale superiori esternamente. Solitamente erano solo coperto da una tettoia, ma per palazzo della Loggia la scala esterna venne inserita in un piccolo palazzo a Nord, una vera innovazione. Esiste ancora ed è esattamente l’edificio sulla destra della Loggia. Salendo al primo piano si congiunge all’interno tramite un cavalcavia.
Il secondo ordine della facciata principale fu affidato invece all’architetto e scultore Jacopo Sansovino, veneziano: aveva da poco terminato i lavori della Biblioteca Marciana in San Marco, ma per il suo progetto bisognò aspettare la metà del ’500, a causa dei venti di guerra che riguardarono anche Brescia all’inizio del secolo. Prima la lega di Cambrai si mise contro la Serenissima; poi nel 1512 ci fu il Sacco di Brescia a opera dell’esercito francese capitanato da Gaston de Foix. La popolazione fu trucidata selvaggiamente e lo strascico di quegli eventi perdurò nell’animo dei bresciani per decenni.
Tutto era quindi fermo, ma i bresciani ebbero la prontezza di conservare alcuni degli elementi che prima della guerra erano fortunatamente pronti, ovvero i «trionfi» che oggi si osservano sul secondo ordine, le armature romane agli angoli.
Per il resto, fu negli anni ‘30 del ‘500 che si ricominciò a pensare all’ingresso centrale, mandando in pensione quello laterale. La nuova entrata fu affidata a Stefano Lamberti, intagliatore fra le altre opere della cornice della Pala dell’altare maggiore della chiesa di San Francesco. «Il gusto è rinascimentale, rigoroso, con qualche elemento geometrico».
La decorazione dei capitelli delle colonne e delle lesene colpisce per la sua bellezza: uomini, fogliame, animali, mascheroni angolari, profili di imperatore di profilo, putti ed esseri fitomorfi...

Andrea Palladio
Durante i lavori, i deputati della fabbrica iniziarono a preoccuparsi della copertura del Garza: temevano non reggesse il peso della nuova costruzione. Si chiamarono dunque illustri architetti chiedendo loro perizie: a Brescia arrivarono così Galeazzo Alessi, Giovanni Antonio Rusconi e Andrea Palladio (che visitò la città più volte).
A questi stessi architetti venne chiesto anche un altro parere: come decorare l’ampissimo salone di circa mille metri quadrati al primo piano del palazzo? Si scelse il progetto di Sansovino: nel 1562 il bresciano Lodovico Beretta iniziò a realizzare il salone sui suoi disegni, non osservando però il progetto alla lettera. Ascoltò le perplessità che avevano esposto gli illustri architetti e decise di ampliare le finestre per illuminare adeguatamente l’enorme ambiente.
Sotto il porticato
La passeggiata per entrare nel palazzo prevede il passaggio sotto l’ampio porticato a volte continue. Gasparo da Cairano torna anche qui: alzando lo sguardo si notano di nuovo sul soffitto i busti dei patroni di Brescia, Faustino e Giovita, e del vescovo Apollonio, che secondo la tradizione convertì al cristianesimo i due fratelli.

Lateralmente – verso sinistra – si nota una freccia bianca su un pilastro: la stratificazione epigrafica di Brescia è visibile in tanti punti del palazzo della Loggia, come questo. Si tratta dell’indicazione verso i rifugi antiaerei per proteggere i bresciani e le bresciane durante la seconda guerra mondiale. «Oggi non la nota nessuno», sorride Contavalli, «ma quella freccia significava possibilità di salvezza».

Rimanendo sempre nella modernità, ma andando indietro di qualche anno, è curioso sapere che nel 1861 la Loggia fu il primo palazzo pubblico di Brescia a essere illuminato a gas. «Se ne vanta anche Angelo Inganni: c’è stato un periodo in cui metteva un becco a gas in ogni dipinto».

L’ingresso
Entrando in Loggia a colpire è subito il grande scalone, che in realtà è un progetto moderno di Antonio Tagliaferri. Il disegno del 1876 era molto complesso e prevedeva la nuova copertura, la nuova scala (prosecuzione del progetto cinquecentesco, mai terminato, di Stefano Lamberti) e alcune importanti modifiche relative agli edifici addossati sul lato Nord. «Vennero però realizzati solo lo scalone e la relativa decorazione dei soffitti», spiega Contavalli.

Oltre alla decorazione marmorea alle pareti, minuziosa ed elegantissima, si osservano salendo (e alzando anche lo sguardo al soffitto) il busto di Camillo Benso Conte di Cavour e soprattutto il «Miracolo della traslazione delle reliquie dei Patroni», opera seicentesca di Bagnadore che copia l’affresco di Moretto che si trova proprio in San Faustino in Riposo, la chiesa protagonista del dipinto: si stava deteriorando e questo consente di goderne appieno.
Al primo piano ecco un’allegoria di Brescia armata di Castelli (una donna in armi con il leone rampante sullo scudo: è il simbolo della città), la vittoria di una Brescia Romana (con alloro e altri simboli antichi) e una fucina di Vulcano con Cerere, questi ultimi di Gaetano Cresseri..
E sbirciando il soffitto delle stanze sulla destra (chiuse al pubblico) si scorge anche un affresco che riproduce il ritrovamento della Vittoria Alata nel 1826. Anch’esso è di Cresseri.

Il Salone Vanvitelliano, già Sala Grande
Cuore della Loggia, frequentato anche da cittadini e cittadine in occasione di incontri e premiazioni (tra le altre cose) è il Salone Vanvitelliano (nome moderno), che inizialmente era addirittura più grande di quanto non è oggi.

La decorazione suggerita da Palladio, Rusconi e Alessi fu eseguita secondo la moda del tempo, riferisce Lara Contavalli, con quadrature che creano una prospettiva verso l’alto, illusoria e pensata per allargare ulteriormente lo spazio. «Le quadrature sul soffitto erano di Cristoforo Rosa, che il Vasari chiamava proprio “il papà delle finte architetture”, mentre per i dipinti fu chiamato Tiziano. All’epoca era più che settantenne, ma accettò di realizzare tre teleri di grandissime dimensioni. I deputati della fabbrica volevano qualcosa di specifico: chiesero l’allegoria di Brescia con Minerva e Marte (intelletto e guerra), la fucina di Vulcano con i ciclopi e Cerere e Bacco con le ninfe delle acque a rappresentare i fiumi della città. Il contratto di Tiziano prevedeva il pagamento alla consegna solo dopo che i deputati avessero visionato i teleri. Quando li videro, asserirono fossero di bottega e non autografi. Il figlio di Tiziano, a Brescia per conto del padre, se ne andò sdegnato per l’offerta economica, e al termine di una lunga disputa Tiziano accettò quanto gli venne offerto in prima battuta».
Il grande incendio del 1575
A complicare le cose arrivò anche un gravissimo incendio. Era la notte tra il 17 e il 18 gennaio 1575 e la Sala Grande (veniva chiamata così prima del 1773) venne devastata dalle fiamme, che sciolsero il piombo della copertura a carena di nave rovesciata e che provocarono un fiume di metallo fuso che invase le strade della città.
«Così», commenta la guida, «delle opere di Tiziano restano un’incisione di Cornelis Cort della fucina di Vulcano e un disegno attribuito a Rubens di Brescia. Una delle sale più belle d’Europa – come la definì Palladio – andò persa».
La ricostruzione
Nel 1773 (passarono diversi decenni prima di ripensare a copertura e salone) finalmente si deliberò per eseguire il progetto proposto da Luigi Vanvitelli, che aveva progettato una ventina d’anni prima la Reggia di Caserta. Il suo progetto prevedeva una riduzione del grande salone con una nuova forma ottagonale e un attico a coronamento dell’edificio, come si vede nel famoso quadro di Angelo Inganni «Piazza Loggia con neve».
Non c’era la nave rovesciata in piombo che vediamo oggi. Successivamente questa copertura fu scartata. Giuseppe Zanardelli non la amava e così venne chiamato Antonio Tagliaferri (che lavorò anche al Santuario di Santa Maria dele Grazie e in Broletto). La sua idea iniziale era magnificente e avanguardistica: propose una copertura in acciaio e vetro. Erano d’altra parte gli anni del Crystal Palace dell’esposizione di Londra e le nuove architetture di ferro: i materiali industriali entravano nelle architetture civili. Ma fu scartata.

La storia sfortunata del Salone non era però ancora terminata. Durante le X Giornate di Brescia, quando per la prima volta l’artiglieria pesante del Castello fu puntata all’interno delle mura per colpire la città durante l’insurrezione contro gli austriaci, arrivarono diverse cannonate. Sono ancora visibili e la traiettoria è ben ipotizzabile: il grande foro che si nota dietro al palco probabilmente arrivò rompendo una delle grande finestre che guardano verso il Cidneo. Anche i conosciuti versi di Giosuè Carducci incisi sulle lapidi alle pareti («Brescia la forte, Brescia la ferrea, Brescia Leonessa d’Italia») sono parte dell’Ode «Alla Vittoria».
La nuova copertura
La nuova copertura – che arrivò solo nel ’900 – fu realizzata a imitazione di quella perduta, e quindi a carena di nave rovesciata con anima in legno e copertura di piombo. Fu costruita tra il 1914 e il 1917. Il legno della copertura subì con gli anni importanti cedimenti strutturali: già nel 1949 ci fu un primo intervento e nei primi anni del Duemila si procedette con l’installazione di una piattaforma sotto la copertura per operare in sicurezza.
Il progetto prevedeva anche che gli uffici al piano superiore del palazzo a Nord della Loggia, dov’era l’antico ingresso, fossero smantellati per creare un accesso al sottotetto. Fu in questa occasione che riaffiorarono gli affreschi della Sala dei Giudici.
Sala dei Giudici
Questa, al secondo piano del palazzo, era la sala dove si riunivano i giudici e dove si amministrava la giustizia. «Gli affreschi ritrovati», dice la guida, «rappresentano colonne tortili decorate e finte cornici. All’interno delle finte cornici affrescate c’erano posizionate otto tele, un ciclo dei fratelli Campi dedicato al tema della giustizia. Le tele, però, erano già state portate all’interno della Pinacoteca Tosio Martinengo già dalla metà dell’’800. Oggi qui sono esposte delle copie».

Originariamente erano otto soggetti: ne restano sette, poiché un «Giudizio di Salomone» venne venduto. Oggi si trova a Budapest. Il ciclo presentava tutti soggetti storici e biblici che servivano come monito. Nel «Tribunale di Cambise», per esempio, si racconta di come il re persiano fece scuoiare un giudice corrotto costringendo poi il figlio a giudicare seduto sullo scranno realizzato con la pelle del padre.
L’ufficio di sindaci e sindache
L’ufficio dei sindaci e delle sindache che si insediano in Loggia si trova al primo piano, prima del Salone Vanvitelliano, sulla destra appena salito lo scalone.

Ognuno di loro negli anni l’ha personalizzato, ma ci sono alcune costanti. Per esempio, la veduta del Castello di Luigi Basiletti e soprattutto il quadro «Piazza Loggia con neve» di Angelo Inganni, con la statua della «Bella Italia» in primo piano.
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