Neri Marcorè: «Il mio Sherlock Holmes a teatro, ironico e affettuoso»

Neri Marcorè indossa i raffinati abiti vittoriani di Sherlock Homes e approda al Teatro Clerici di Brescia. Accadrà domani, venerdì 7 novembre, con «Sherlock Homes. Il musical», (in via San Zeno 168, alle 21; biglietti da 34,50 a 55 euro + commissioni; info sul sito di Zed Live). La storia è ambientata nel giugno 1897, quando un uomo viene misteriosamente ucciso. Ma la vittima, prima di morire, ha lasciato messaggi cifrati, chiedendo l’intervento del celebre detective per decrittarli. Come scoprirà il geniale Sherlock, con i suoi proverbiali ragionamenti deduttivi, non si tratta di indagare (solo) su un omicidio, quanto piuttosto di individuare un disegno criminoso assai più complesso (e tragico), sotto forma di una grave minaccia che incombe su Londra e sulla regina.
Diretto da Andrea Cecchi (che lo ha scritto insieme ad Alessio Fusi ed Enrico Solito), lo spettacolo rilegge attraverso il linguaggio del teatro musicale il carismatico investigatore uscito dalla penna di Arthur Conan Doyle: si dipana lungo due atti, per una durata complessiva di due ore, avvalendosi – oltre che di Marcorè come protagonista – delle intepretazioni di Paolo Giangrasso, Francesca Giavaglia, Barbara Corradini e Simona Marzola. È l’eclettico Marcorè a entrare nel dettaglio dello show.
Neri, come si sviluppa lo spettacolo?
Ci sono indizi che vengono seminati e, ovviamente, Sherlock ha la capacità di notarli più di altri. Ha un’osservazione selettiva, un’intelligenza che collega gli elementi quasi con poteri sovrannaturali. Ovviamente siamo nel mondo della finzione, dei codici accettati per convenzione: è una convenzione che lui sappia notare tutti questi particolari e ne faccia partecipe il pubblico.
C’è spazio per un’indagine parallela dello spettatore?
Chiunque può provare a individuare l’assassino o l’assassina, responsabile dell’omicidio che avviene all’inizio della storia. E lo stesso discorso vale rispetto a chi cerca di eliminare la regina con un attentato in pubblico… Insomma, c’è senz’altro un coinvolgimento diretto di chi segue lo spettacolo.
Siamo abituati a immaginare il rapporto tra Sherlock Holmes e il dottor Watson come un mix di clichè, ironia e reiterazioni. Succede anche nello spettacolo?
Il gioco tra le parti viene rispettato, perché Holmes ogni tanto prende in giro Watson, dimostrandogli il proprio affetto in maniera un po’ bizzarra, anche attraverso lo sfottò. C’è però una forte stima reciproca, per riproporre la quale giova il bel rapporto che c’è tra me e Paolo Giangrasso/Watson.
Come è nata la vostra complicità?
Ho conosciuto e apprezzato Paolo sul set del film di Davide Ferrario «Boys» (divertente commedia del 2021, sulla reunion di un gruppo rock di amici alle soglie dei sessant’anni, ndr), e l’ho proposto a Cecchi e a Fusi, che lo hanno scritturato in questo ruolo. Il nostro modo di interagire nel privato si trasferisce anche sulla scena: c’è molta ironia, molta stima, e anche un po’ di presa in giro, sempre tuttavia molto, molto, affettuosa. Come avviene appunto tra Holmes e Watson.
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