Mazzocchi: «Un buon direttore d’orchestra sa creare un’identità collettiva»

Enrico Raggi
Il maestro bresciano ha vinto il mese scorso il secondo premio del concorso Antal Dorati di Budapest
Il direttore d'orchestra Luigi Mazzocchi - © www.giornaledibrescia.it
Il direttore d'orchestra Luigi Mazzocchi - © www.giornaledibrescia.it
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Se la strada della nomina politica può dar luogo ad accese polemiche, quella dei concorsi vanta una specchiata tradizione. Il maestro bresciano Luigi Mazzocchi il mese scorso ha vinto il 2° premio del concorso Antal Dorati di Budapest, competizione internazionale per direttori d’orchestra: 400 partecipanti dal mondo, con audizioni dal vivo, 36 finalisti, brani ad estrazione, direzione di sei capolavori sinfonici, giuria presieduta da Antonello Allemandi.

Mazzocchi debutta la prossima stagione in Francia con l’Orchestre National de Cannes, in Austria al Musikverein di Vienna con la Mav Symphony Orchestra di Budapest, in Russia con la Rostov Symphony Orchestra, al Festival Internazionale di Asolo.

Maestro, cosa possiede di speciale l’arte della direzione d’orchestra?

«Porsi dinnanzi a una moltitudine di musicisti e guidarli in modo convincente attraverso la propria visione: ciò richiede tecnica, maturità, preparazione, sensibilità umana e psicologica. Servono empatia e senso pratico. Ogni popolazione, orchestra, singolo individuo sono diversi: ma uniti creano un’identità collettiva che li rende unici. Il direttore deve saper cogliere tutte queste sfumature e ottenere il meglio, nel rispetto del compositore, della musica, degli esecutori, del pubblico».

Come è il panorama direttoriale internazionale?

«In Italia è in corso un progressivo cambio generazionale, giovani maestri stanno raggiungendo posizioni di prestigio ovunque nel mondo. Una iniezione di nuova linfa vitale sta arrivando dall’Oriente, dagli Usa, dalla scuola finlandese. L’età media di chi si approccia al podio si sta abbassando. Oggi molti giovani iniziano presto carriere importanti, facendo esperienza diretta e mettendo subito “le mani in pasta”, anche con orchestre molto blasonate. Difficile è trovare la propria voce personale, scoprire una chiave interpretativa, dire qualcosa di nuovo. Non basta la tecnica pura per giungere al nocciolo del senso».

Quali maestri che ha incontrato l’hanno più segnata?

«Da Gilberto Serembe ho letteralmente imparato a tenere la bacchetta in mano, serietà, dedizione, eleganza, ordine. Mi ha insegnato cosa dire e come farlo: non diritto acquisito, ma privilegio da guadagnare ogni istante. Da Umberto Benedetti Michelangeli ho assorbito la ricerca del senso profondo di ogni partitura, la direzione di una frase, come far “parlare” la musica, cogliere l’atmosfera e il “momentum” dietro le note. Daniele Gatti possiede un “mestiere” formidabile: sa come organizzazione una prova, identifica al volo i problemi e trova le soluzioni; efficacia, efficienza, gestione del gruppo nei suoi ingranaggi minimi per ampliare la tavolozza dei colori e delle articolazioni».

Tra i grandi direttori odierni, chi ama particolarmente?

«Ultimamente trovo corrispondenza con Myung–Whun Chung: la sua eleganza, il suo chiaro gesto dal tratto Zen, indicano un mondo interiore ricchissimo, che emerge con forza anche nel più piccolo dei movimenti. Tutto, nel suo dirigere, ha significato».

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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