Il trombonista Abbiatici: «In Asia insegno la fantasia degli italiani»

Da «Metti la cera, togli la cera» a «Inspira, espira». Trasforma la massima del maestro Miyagi di «Karate Kid» il trombonista di Passirano Eugenio Abbiatici: ridurre ai minimi termini per poter ascendere ai gradi più complessi del suono (vale anche per la vita?).
Da 13 anni Abbiatici è tutor degli ottoni della Asian Youth Orchestra (AYO) di Hong Kong, la più importante orchestra giovanile orientale, attiva dal 1990 su iniziativa di Richard Pontzious e Yehudi Menuhin, che accoglie al suo interno musicisti provenienti da 12 nazioni asiatiche diverse (Corea, Vietnam, Indonesia, Filippine, Laos…). Abbiatici insegna al Conservatorio di Milano, dal 1993 è Primo Trombone dell’Orchestra della Svizzera Italiana (OSI) di Lugano, e ha suonato fino al 1992 nell’Orchestra della Scala di Milano. Gli abbiamo chiesto di parlarci della sua esperienza.
«La storia umana sarà sempre più una gara tra l’educazione e la catastrofe», avvertiva già Orson Wells. Maestro, come si «tirano su» i giovani musicisti (italiani, asiatici, del mondo intero)?
Con duro lavoro e ampliamento dell’orizzonte culturale, condivisione e passione, rigore e simpatia. Sono stato invitato a insegnare in Asia nei primi anni 2000 dal collega fagottista Giorgio Versiglia. Ero titubante per il mio inglese poverissimo. «Non ci interessano le tue parole, ma la tua esperienza, la scuola strumentale italiana, la vostra carica umana», mi hanno rassicurato. Con la musica, poi, ci si spiega subito, senza troppi discorsi.
Quali sono i punti di forza della Asian Young Orchestra?
Tengono molti concerti, in lunghe tournée asiatiche. Sono recettivi, entusiasti, ma anche diligenti e disciplinati. Rispettano profondamente il ruolo e la persona del docente. Hanno un forte desiderio di imparare e di migliorarsi. Le prove durano tre settimane, 8 ore al giorno.
Cosa noi italiani possiamo insegnare loro?
Coraggio, intraprendenza, gusto della sfida. Nell’arte, e nelle diverse attività personali e quotidiane, bisogna rischiare, usare fantasia, dinamicità. Occorre osare. A volte si sbaglia, più spesso si aprono nuove strade. La musica nasce anche da guizzi, scoperte, innovazioni.
È un po’ quello che lei sta facendo nella OSI?
Esatto. Con il direttore Markus Poschner abbiamo registrato in Svizzera brani di autori romantici, con effetti inauditi, trasparenti e cameristici; io usavo tromboni classici, dal canneggio e campana ridotti. Mi sono tornate utilissime le esecuzioni storicamente informate imparate nelle fila dei Barocchisti di Diego Fasolis, con cui ho collaborato.
Quali incontri, della sua lunga carriera, ricorda con piacere?
Difficile scegliere fra Maazel, Prêtre, Sawallisch, Osawa, Gergiev, Chung. Di Riccardo Muti conservo il ricordo di un vero maestro “toscaniniano”: severo, preparatissimo, autoritario. Carlo Maria Giulini era l’opposto: gesto quasi inesistente, signorilità assoluta, prodigiosa concentrazione. Mi ha stupito come un russo, Jurij Temirkanov, sia riuscito a penetrare i segreti sentimenti della «Traviata».
Progetti?
In settembre, a Lugano, mi attendono «Cavalleria Rusticana» e «La voix humaine». Ho anche tanta voglia di incontrare la formidabile energia di Charles Dutoit, classe 1936.
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