C’erano (e ci sono ancora) i gabber: la cultura hardcore ha fatto storia

«Hardcore never dies». Eppure a un certo punto – era il 2003 o giù di lì – dell’hardcore non si sentì più parlare. Per qualche anno quella musica martellante martellava dappertutto. Non solo in discoteca o sulle automobili, pure nei saloni degli oratori e tra i corridoi delle scuole. Qualcuno ricorda dei saggi delle medie con ragazzini rasati che si esibivano in quello stile concitato, convulso e frenetico. Tutti ne parlavano, tutti – volenti o nolenti – si trovavano ad ascoltarla. Le felpe e i giubbotti che tutti indossavano erano Lonsdale e Australian e lo stile da imitare era quello dei gabber. Poi più niente.
L’hardcore era forse morto? In realtà no. O perlomeno non del tutto. Come molte subculture, anche quella gabber e della musica hardcore è emersa dal sottosuolo diventando mainstream per un paio d’anni (in questo caso a cavallo del nuovo millennio) per reimmergersi silenziosamente e sopravvivere in maniera più carbonara. E così ancora oggi, a quasi quarant’anni dalla sua nascita, le serate hardcore continuano a punteggiare i calendari delle discoteche come il Number One di Corte Franca.

Gabber, hardcore e hakke
Teste completamente rasate o creste. Felpe Lonsdale e tute Australian. Ai piedi le Air Max BW di Nike (chiamate colloquialmente «le classic»). Ecco lo stile dei gabber, i ragazzi che tra gli anni Novanta e il Duemila ascoltavano quella musica techno. Le ragazze – le gabberine, come venivano chiamate in Italia – portavano invece i capelli raccolti in una coda alta, con la metà inferiore del capo rasato. Anche il loro outfit era un punk sportivo: gonnelline o pantaloni della tuta in acetato, reggiseni sportivi e Nike ai piedi. A volte avevano la frangetta corta e per un certo periodo ai rave spopolavano i ciucci in bocca.

La musica che ascoltavano e su cui ballavano – anche per ore senza interruzione – è appunto l’hardcore, un ramo dell’elettronica nato tra Germania, Paesi Bassi e Belgio tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta. Si riconosce dalla velocità molto alta, spesso tra 160 e 200 bpm o anche di più, e da una cassa distorta e aggressiva che diventa il centro del brano, così come dall’uso delle drum machine. La struttura è essenziale, con loop ripetuti e poche variazioni, per sostenere un movimento fisico continuo. Il suono è duro, metallico, diretto. Le melodie ridotte al minimo.
Come spiegava il dj bergamasco Gabber Eleganza a «Rolling Stone» qualche anno fa, «l’Hardcore nasce in Germania dalle sperimentazione di un produttore illuminato, Marc Acardipane, con lo pseudonimo Mescalinum United. Grazie al pezzo We Have Arrived – remixato tra gli altri anche da Aphex Twin – ha innescato una fiamma che non si è mai spenta. In Olanda questo sound ha preso piede velocemente. Specialmente a Rotterdam, dove i tifosi del Feyenoord e i ragazzi dell’aree suburbane iniziano a ballarlo per mettersi anche in contrapposizione con la più fighetta Amsterdam. In pochi anni l’Olanda diventa sinonimo di gabber, almeno 1 ragazzo su 3 nel 1996 era un gabber. Da lì, l’estetica gabber ha generato tante altre sottoculture in Italia e Belgio in primis, poi Germania, Scozia, Australia...». Sempre secondo Alberto Guerrini (questo il suo nome), scavallato il Duemila la scena gabber «ha conosciuto alti e bassi, momenti solari e meno, cambiamenti estetici ed evoluzione del sound. Non c’è più un grosso movimento come a cavallo dei metà 90-2000, ma l’hardcore inteso come sound ed attitudine è cresciuto in maniera vertiginosa senza precedenti in tutto il mondo, perché rispecchia più che una moda uno stato d’animo, uno stile di vita».
I primi luoghi a ospitare musica e gabber furono i rave nordeuropei e gli spazi industriali usati come luoghi di aggregazione giovanile. La scena gabber di Rotterdam contribuì a definirne l’identità con l’hakke, il ballo tipico, e con un’estetica sportiva e riconoscibile. Nel tempo l’hardcore si frammenta in vari sottogeneri, dall’industrial all’uptempo e al frenchcore, ma conserva l’idea di fondo: ritmo estremo, fisicità e una comunità che usa la musica come collante.
I warrior
Parlando di gabber bisogna citare però anche i warrior. Declinazione italiana dei gabber olandesi, i warrior non erano un gruppo organizzato né un movimento strutturato, ma uno stile e un modo di stare nella subcultura. La parola indicava chi viveva l’hardcore in modo più fisico e identitario, con un’estetica marcata – fatta sempre di capi sportivi, pantaloni larghi, felpe con loghi visibili, zeppe Buffalo, lenti a contatto colorate e atteggiamento strafottente – e l’immaginario era quello del «combattente», una figura che attraversa la notte con la musica come arma e armatura. E che agli occhi degli adulti dell’epoca era associata – non sempre a sproposito – con eccessi, ecstasy, popper, sballo e sregolatezza. Uno degli eventi che rimasero più impressi in questo senso (e che portò alla chiusura temporanea di una discoteca bresciana, all’epoca dei fatti, fu la morte per overdose di Yannick Blesio, diciannovenne di Collebeato).
In Olanda la figura tipica era più essenziale: testa rasata, tuta da ginnastica, ballo hakke e un atteggiamento cameratesco. In Italia molti ragazzi e ragazze reinterpretano quei codici accentuando alcuni aspetti, soprattutto la fisicità e l’idea di forza. Per esempio: i ragazzi portavano i capelli rasati solo a metà e spesso con creste e punte che ricordano l’estetica punk. Fu dunque anche un fatto estetico e sociale: un modo di esprimere appartenenza attraverso il corpo, il modo di vestirsi e la presenza costante alle serate hardcore, con un modo di ballare diverso dall’hakke, con baricentro più basso e movenze più violente.

In realtà, il warrior non è semplicemente una declinazione italiana del gabber, ma potremmo dire bresciana. Tutto grazie alla discoteca Number One di Corte Franca, uno dei luoghi simbolo – insieme al Florida – di questa subcultura. Si chiamano infatti così – «Hardcore warriors» – le prime serate hardcore alla fine degli anni Novanta. Solo successivamente il termine si è esteso e ha acquisito le sfumature appena descritte. Lo scorso 31 ottobre il Number, nella storica sala 2 ha ospitato un party dedicato proprio ai 30 anni della cultura warrior, partecipatissima. Stasera, sabato 22 novembre, è in programma un altro evento, «Hardcore maniac», e dal 2019 ogni anno in estate viene organizzato il Leaderz Festival. Non ci sono più solo ragazzi e ragazzini, come ci si può immaginare: in pista – e nel mucchio – ora ci sono ventenni, trentenni, quarantenni e cinquantenni.
Il Number One
A proposito di Number One e Florida, le serate hardcore diventano il luogo dove questa identità gabber prende forma concreta. Ballare sulla musica hardcore – ritmata, velocissima, martellante – è una prova di resistenza per i ragazzi e le ragazze che frequentano le discoteche. La disco di Corte Franca, «il locale dell’impossibile» come recitava l’insegna, è stata tra le prime in Italia a portare l’hardcore in Italia. Fu lì che il fondatore Mario Basalari diede vita alla «Sala 2» per come la conosciamo oggi, ovvero la pista dedicata all’hardcore, ai gabber, alle gabberine e ai warrior, dove tra i resident dj c’era Claudio Lancinhouse, figura mitica per i cultori del genere.
Nel 2007 Basalari organizzò una festa di Halloween a tema hardcore a cui parteciparono circa 5mila persone. Un risultato enorme, se pensiamo che i gabber non erano più così numerosi nel post-2001. Il servizio tg di Teletutto dedicato a quella serata circolò moltissimo su YouTube e lo stesso Basalari vi compare. A chi gli chiedeva un’altra festa dello stesso genere, rispose sorridendo: «Solo se fate i bravi».
Altra figura mitica legata al Number One era la piramide, con il pogo finale (aka l’ammucchiata) che accompagnava l’accensione delle luci a fine serata. La scopo era toccare il soffitto della sala 2 mentre in sottofondo il dj metteva i brani più forti e distorti. Qualche anno fa in centro a Brescia ci fu anche un’installazione artistica dedicata proprio alla piramide umana: la ideò l’artista Fabio Weik negli spazi dell’ex Ferro Bulloni in piazzale Repubblica nell’ambito dell’Assembla Project.

Al Florida
Anche il Florida di Ghedi, dicevamo, aveva la sua sala hardcore. Se per il Number il nome che attirava gabber e warrior da tutta Italia (e da tutta Europa, pure dall’Olanda) era Lancinhouse, qui alla console stavano spessissimo Nico & Tetta (Nicola Sbalzer e Daniele Ferrari), duo di produttori hardcore che qui era resident dj.

«Abbiamo suonato in Germania, Olanda, Spagna, Russia, Australia e Stati Uniti» aveva raccontato Ferrari alla giornalista Francesca Renica in occasione di una serata dedicata proprio all’hardcore nel 2024. «Abbiamo scelto di organizzare questo revival per chi quegli anni li ha vissuti davvero». Le serate vengono peraltro organizzate con cadenza regolare anche al Florida: la prossima, «Gabber resistance», è in programma per il 6 dicembre 2025.
Ma l’hardcore non era solo discoteca. Ragazzi e ragazze lo ascoltavano (e lo ascoltano: le serate sempre partecipatissime parlano di una tendenza ancora viva) c’erano i cd e le compilation, che tra i Novanta e i Duemila giravano anche in musicassetta, anche se era già tempo di compact disc. Alcuni brani e album hardcore sono diventati punti fermi della scena perché hanno definito un’estetica sonora precisa e hanno circolato nelle serate europee, arrivando anche al Number e al Florida. Uno dei riferimenti più riconosciuti è «Rainbow in the Sky» di Dj Paul Elstak, un pezzo che portò l’hardcore nelle classifiche e che mostra il lato più melodico del genere olandese.
Sul versante opposto, durissimo e per niente commerciale, c’è «Always hardcore» dei Rotterdam Terror Corps, una sorta di dichiarazione d’intenti, un manifesto che ha accompagnato l’immaginario gabber più energico. E poi «Ping machine» dei Micropoint, «At war (Rmx)» dei Leathernecks, «Pulsinger’s nacht» degli Ilsa Gold… E tra i titoli più ascoltati dai ragazzi italiani c’era «Io sono vivo» di The stunned guys, prodotto dall’etichetta Traxtorm Records.
Infine, c’è «Hardcore will never die» di Q-bass. «L’hardcore non morirà mai»: una dichiarazione audace per l’epoca, che per i gabber era una speranza e per i delatori di quel genere una minaccia. Alla fine – almeno per ora – fu una profezia: tornata nel suo sottobosco, la pesantissima musica hardcore non è morta, ma continua a riempire discoteche, locali e piattaforme streaming.
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