Francesco Maffei trombonista di Nuvolera ammesso a scuola di Karajan

Quasi quattrocento trombonisti provenienti da tutto il mondo. Un solo italiano, il vincitore. È stato così ammesso alla Karajan–Akademie dei Berliner Philarmoniker Francesco Maffei, giovane talentuosissimo musicista di Nuvolera, vent’anni appena compiuti, un sacco di premi alle spalle e una radiosa carriera davanti a sé.
Primi studi all’Accademia Rondò del suo paese, diploma al Conservatorio di Bergamo, collaborazioni con l’Orchestra Rai di Torino e l’Orchestra Mozart di Daniele Gatti, alcuni anni di esperienza con l’Orchestra Giovanile del Concertgebouw di Amsterdam e la Filarmonica del Festival di Verbier in Svizzera; ora sta studiando a Berna con Ian Bousfield (a lungo primo trombone della London Philarmonic Orchestra, poi nei Wiener Philarmoniker), ma lo attende un futuro nelle prime file di qualche prestigiosa compagine sinfonica. «Però la prospettiva di viaggiare sulle ali della musica non mi spaventa, anzi non vedo l’ora perché adoro girare il mondo – spiega Maffei –. Dedico questa vittoria ai miei genitori Ilaria e Cesare e al mio maestro Ermes Giussani, le prime tre persone, nell’ordine, alle quali ho telefonato dopo aver saputo di essere stato accettato nella scuola nata da Karajan e a lui intitolata».
Cosa significa il suo ingresso in questa istituzione?
Questo biennio rappresenta un trampolino di lancio, è probabilmente la scuola più rinomata al mondo. Inoltre, mi garantisce l’accesso ai concorsi dei Berliner Philarmoniker (che funzionano a invito e non ad accesso libero). Fra cinque anni il primo trombone va in pensione e il suo posto si rende disponibile.
Quali scuole di trombone ha incontrato in questi anni?
Ogni nazione, ogni orchestra, ogni direttore cerca e ottiene un certo suono degli ottoni (è diverso perfino il diapason). Gli inglesi prediligono timbri chiari e impasti morbidi; gli austro–tedeschi mirano a colori più scuri, pieni e bruniti, con articolazione pronunciata; noi italiani possediamo duttilità, tinte argentee e temperate, delicatezza di accenti, forza di gesto e plasticità teatrale, mobilità di fraseggio, ampiezza dinamica. Ogni esecuzione è un laboratorio di psicologia: ci si ascolta, si mette in gioco la fiducia e il rispetto reciproco, relazioni umane complesse: leadership condivisa, negoziazioni sottili, sensibilità che imparano a coesistere. È un respiro comune che annulla l’isolamento del direttore e la frammentazione dei singoli strumentisti.
Come ha fatto a vincere?
Non saprei. Cerco sempre di «dare tutto», meno di questo è come dire «niente». Siamo fatti così noi giovani: per dire sì, senza risparmio, con generosità, non ci interessa una via di mezzo. Non mi accontento. Ciò che non amo e che mi respinge non è la fatica, ma il tempo vuoto, senza scopi, senza obiettivi. Il prossimo anno suono da solista con l’Orchestra Sinfonica di Heidelberg, al teatro cittadino e al Konzerthaus di Dortmund, sotto la direzione di Johannes Klumpp; poi mi attendono molti récital in trio e in Quintetto fra Belgio e Svizzera. Mi sento come in una barca dal fondo di vetro: vedo tutto sotto, le profondità del mare, la bellezza della musica, cosa c’è dietro alle note.
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