Marisa Laurito: «Cambiammo per sempre il modo di fare televisione»

Il 29 aprile di quarant’anni fa, su Rai2, in seconda serata, si materializzò all’improvviso un programma irresistibile, che catalizzò durante un mese e mezzo l’attenzione del pubblico italiano, divenendo in breve tempo un fenomeno di costume e rivoluzionando lo stesso linguaggio televisivo nazionale. Tanto che la sigla, di stralunata irriverenza (con passaggi tipo: «Lo diceva Neruda che di giorno si suda... ma la notte no! Rispondeva Picasso, io di giorno mi scasso... ma la notte no!»), divenne un tormentone, non di una sola estate.
Parliamo di «Quelli della notte», trasmissione di culto ideata e condotta da Renzo Arbore, in onda appunto dal 29 aprile al 14 giugno 1985, per 32 puntate. Uno show giocato sulla totale improvvisazione, all’insegna di una pungente ironia e di un divertimento che provavano per primi i suoi stessi protagonisti: una galleria umana che contemplava personaggi come Massimo Catalano, con i suoi aforismi disarmanti; Marisa Laurito, alla costante ricerca del fidanzato Scrapizza; e poi il romagnolo filosovietico Maurizio Ferrini, il frate visionario Nino Frassica e il lookologo Roberto D’Agostino.
Quindi Giorgio Bracardi, Andy Luotto, Gegè Telesforo, Dario Salvatori, Marvin, Gino Ventura, Mauro Chiari, Richard Benson, Riccardo Pazzaglia, Sal Genovese, Stefano Palatresi, Silvia Annichiarico, Antonio e Marcello, la segretaria Simona Marchini e la band diretta da Gianni Mazza, piena di musicisti talentuosi.
Abbiamo chiesto a Marisa Laurito – che, accanto alla natìa Napoli e a Roma, ha nel cuore pure Brescia, città del suo compagno Pietro – di ricordare per noi quella trasmissione e la combriccola che la animò.
Marisa, il quarantesimo di «Quelli della notte» le regala nostalgia o la fa sorridere al pensiero?
La nostalgia non fa parte del mio modo di vivere: io guardo sempre al futuro, quasi mai al passato. Mi fa però molto piacere (e sì, tuttora sorridere) ricordare di aver preso parte a una trasmissione di cui ancora si parla dopo quarant’anni. Quando il tema è uscito con Renzo, che sento quasi ogni giorno, gli ho detto che deve essere molto fiero di aver fatto una cosa così. E non solo quella, perché ne ha realizzate tante di bellissime, anche con me, come «Marisa la Nuit», che pure fu programma di grande successo.
Qual è la cifra che rende speciale «Quelli della notte»?
È stato un programma dirompente. Era come una sit-com, con satira, musica e personaggi che rappresentavano ciascuno un lato della società. Ha rotto gli schemi della televisione «incravattata», come la chiamo io, e di una società che era abituata a conduttori che esordivano con «Signore e signori, buonasera!», mentre noi si improvvisava senza una parola scritta. Il fatto che se ne parli ancora, certifica che fu un segno forte di rottura e di cambiamento, non solo per la televisione, ma anche per il costume.
A renderlo leggendario contribuì il fatto che andò in onda una sola stagione?
Non credo, perché all’epoca con Renzo era sempre così. Le sue motivazioni, e un po’ anche quelle degli altri, erano di fare un successo e poi scappare a gambe levate... Si faceva una cosa, ma poi c’era la voglia di passare ad altro e non rimanere inchiodati alla stessa sedia per anni.
Com’è entrata nella «famiglia» dell’impareggiabile talent-scout Arbore?
È stata l’amicizia con Luciano De Crescenzo a farmi frequentare Renzo. Di Luciano divenni amica quando interpretai un film che lui aveva sceneggiato, «La mazzetta» di Sergio Corbucci, in cui ero a fianco di Manfredi e Tognazzi. Tramite Luciano ho conosciuto Renzo, che dopo un periodo in cui «cazzeggiavamo» nei salotti e nella vita, mi ha proposto di fare «Quelli della notte»: non c’era ancora un ruolo pensato, quello della donna ingenua e tradizionalista che avrei poi interpretato.
Accettò subito?
Ero la primadonna del Bagaglino, avevo raggiunto un ruolo da protagonista dopo il disastroso «scavalcamontagne» e una gavetta durata diciotto anni: sapevo che si trattava di un tuffo nel buio (gli attori di quegli anni guardavano alla televisione con la puzza sotto il naso), eppure mi divertivo talmente a giocare con Renzo, che ho deciso di rischiare, e quel tuffo l’ho fatto.
Con gli altri del cast, avete continuato a frequentarvi?
Eravamo affiatatissimi e siamo rimasti amici tra di noi. Purtroppo alcuni non ci sono più, e quando se ne sono andati è stato un pugno al cuore.
C’è in giro un nuovo Arbore?
Intanto, per fortuna, c’è quello vero. E poi, liberiamoci da questa voglia di trovare eredi ai grandi artisti: tutti gli artisti sono un unicum, e se diventano popolari accade per un motivo. Non c’è un erede di Arbore, come non c’è di Proietti o di De Crescenzo. Renzo, poi, ha tante frecce al suo arco: originalità, professionalità, giocosità, intelligenza, ironia; conosce e ama la musica e il cinema. Complicato trovarne uno simile... Lo stesso vale per Luciano De Crescenzo, un uomo coltissimo, bellissimo, spiritosissimo: un filosofo vero, e non un divulgatore come molti hanno voluto farlo credere, per invidia del suo stratosferico successo.
La televisione di oggi non le piace...
Mi spiace essere «tranchant», ma è così. La televisione formale è stata sostituita dalla tv dei format: quelli che hanno successo vengono replicati fino alla noia, gli altri non vengono più presi in considerazione. Anche oggi ci sono trasmissioni piacevoli e ci sono i conduttori «informali»: anzi, lo sono tutti ormai... alcuni carini come De Martino o bravi come Fazio, che ha creato un suo mondo e lo ha portato avanti. Ma, in generale, la tv si è molto appiattita.
Perché?
La maggior parte dei dirigenti che ora si occupano di televisione, non capiscono cosa sia. Ai tempi di «Quelli della notte» c’erano funzionari Rai che rischiavano la seggiolina mandando in onda un programma così fuori dagli schemi. Noi avevamo Minoli e altri funzionari appassionati di televisione, che sapevano di cosa si parlasse. Quando raccontavi a uno di questi il tuo sogno, lo capiva e a volte sapeva anche tradurlo in business. Ora non è più così. Anche se in Italia ci sono straordinari autori e attori, siamo colonizzati da uno stile americano, da una (sotto)cultura che non ci appartiene. Questo per me è gravissimo, una tragedia.
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