Maria Vittoria Backhaus: «Oggi D’Annunzio sarebbe un influencer»

Secondo Maria Vittoria Backhaus il Vittoriale degli Italiani è troppo buio. Ecco perché per la sua opera vorrebbe delle luci al neon. Backhaus fa parte delle dieci artiste che espongono al «Vittoriale delle Italiane» a Gardone Riviera, che ha inaugurato il 25 maggio 2024 e in cui le sue opere sono appese accanto a quelle di Silvia Camporesi, Ramona Zordini, Mariagrazia Beruffi, Luisa Menazzi Moretti, Giusy Calia, Antonella Monzoni, Caterina Matricardi, Alessandra Chemollo e Patrizia Bonanzinga: «Non potevo toccare nulla, ma aggiungendo nastro adesivo di qua e un topo di là ho immortalato le statue come opere abbandonate». L’ha fatto perché secondo lei «D’Annunzio era un personaggio pop-punk. Parlava sempre di sé. Oggi potrebbe essere un influencer. Quindi ho dissacrato la figura del Vate». D’altra parte lei - classe 1942 - è nota per dissacrare oggetti e soggetti: nel 2000 fotografò i Rolex per «Io Donna» appoggiandoli in un mercato etnico («nessun discorso sociale: gli immigrati nel Duemila hanno portato una nuova estetica»); un’altra volta fece un servizio sui tailleur di Prada facendoli indossare alle modelle su un autobus («pensavo alle badanti che andavano e venivano dalla Romania»). Lo fa per raccontare ciò che succede non con semplici reportage: ci mette fantasia.
Maria Vittoria, quando cominciò a fotografare?
«Alla fine degli anni ’60, come reporter. Ero giovanissima, vent’anni o poco più. Feci l’Accademia e la fotografia non veniva insegnata, ma provai a fotografare. Sono riuscita per qualche anno a fare la reporter, ma ero troppo giovane. E donna: non mi mandavano facilmente in servizio, quindi mi buttai sui reportage di costume. Ho fotografato Milano, i circhi, gli ambulanti…».
E la moda…
«Sì, perché non riuscivo a mantenermi. Non mi davano abbastanza lavoro. Le redazioni erano maschili. Mi vedevano e pensavano che dovevano pagare due camere d’albergo, perché non avrei dormito con i colleghi. Si presumeva che una donna non riuscisse a correre, a vedere i morti. A un certo punto, frequentando il Bar Giamaica in zona Brera, conobbi Flavio Lucchini, che stava aprendo L’Uomo Vogue. Isa Vercelloni stava invece aprendo Vogue Casa. Mi chiesero di lavorare: non sapevo nulla della fotografia in studio, lo sfondo bianco per me era da inventare, perché prima avevo lavorato sulla vita vera, quindi iniziai a fare grandi scenografie appoggiando lì i vestiti e gli oggetti».
I suoi editoriali per le riviste di moda sono fortissimi: anche in quel caso ha anticipato i tempi…
«Forse il reportage me lo sono portato dietro. Cercavo di raccontare il mio tempo, ciò che accadeva, anche facendo la moda. Poi negli ultimi anni - i Duemila - sono passata a Io Donna: volevo fare giornalismo più popolare. Anche lì mi diedero la possibilità di fare servizi strani: fiabe, sogni, ricostruzioni… I servizi erano costosi, molto più del fondo bianco. È bello avere un giornale che crede in ciò che fai e che ti finanzia».
A proposito di sogni: qualcuno in effetti la definì onirica…
«Sì, un po’ sì. Una volta dovetti fotografare degli accessori maschili. Era il 2000. In quel momento erano arrivati gli immigrati. Non volevo fare un discorso sociale, ma portavano con sé una nuova estetica. Andai nei loro mercati, portai i Rolex e li ambientai in mezzo ai tappeti africani, sotto alla palma finta indiana… I tailleur di Prada per un redazionale li feci indossare alle modelle come fossero badanti che andavano e venivano dalla Romania in pullman. Voglio raccontare ciò che succede, ma non con un reportage. Con fantasia».
Cosa esporrà qui?
«Ho fatto ritratti alle statue allestendole come se fossero state dimenticate. Mi diverte che D’Annunzio avesse cianfrusaglie dappertutto. Era insopportabile! Un vanesio. Lo vedono tutti come il massimo poeta, ma chissà? Queste statue non sono capolavori, ma mi hanno comunque sorvegliato a vista mentre scattavo».
Comprensibile, c’è appena stato il furto…
«Sono arrivata due giorni dopo. Ma hanno rubato i gioielli della temporanea, mica la sua roba! Vede che erano cianfrusaglie? In ogni caso: mi piacerebbe che le mie foto le allestissero con dei neon, per il D’Annunzio punk. Si faceva le foto nudo, si è messo la nave in giardino, ha comprato 500 statue che non valevano niente e le ha sparse in casa. Era un matto totale. Molto attuale. Ma il buio delle spegne tutto. Trovo più interessante l’eccesso, ecco perché vorrei dei neon».
Qual è il suo rapporto con le altre artiste esposte?
«Le conosco solo di nome. Mi farà piacere incontrarle lì. Mi incuriosisce sapere che ne pensano».
Di lei o di D’Annunzio?
«Di D’Annunzio! Ma non mi fa parlare della fotografia al femminile, visto che siamo dieci artiste?».
Se vuole…
«Sono convinta che le foto scattate da un uomo o da donna non le riconosci. Annie Leibovitz, Letizia Battaglia… Direbbe che è una donna ad avere scattato le loro opere? È molto difficile stabilirlo. I riconoscimenti per me sono un fatto culturale, non di sesso. Ho partecipato anche a una mostra sulla moda vista dalle donne. In quel caso si può avere un dibattito rispetto al rapporto della donna con il fashion, che è diverso da quello che può avere un fotografo uomo, ma lì finisce».
Ritiene che le possibilità siano le stesse, quindi?
«Non so. Ma parlare di “fotografia al femminile” è un po’ esasperante. Non so dove si andrà a finire. Forse sbaglio, ma l’età ti permette di dire ciò che vuoi».
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